lunedì 19 marzo 2012

mercoledì, 26 ottobre 2011



Non li voglio, i fiorellini. E nemmeno i pupazzini. Le grechine. Gli orsetti. Detesto tutto questo ornare cose che non hanno nessun bisogno di essere ornate. Perché mai devo avere dei fiori sulla carta igienica? Perché la carta da cucina deve avere fiocchetti e pentolini? Io le voglio bianche. Per favore.
Perché non è vero che le cose decorate sono più carine. Sono più brutte. Ma molto più brutte, molto.
L'ornato è una cosa seria, una cosa difficile, costosa, impegnativa, laboriosa. Altrimenti è una porcheria.
L'ornato è l'Alhambra, è William Morris, è gli azulejos e Wedgwood e Lalique, è gli arazzi medievali e i kilim. È, piuttosto, i ghirigori di tuo figlio col pastello. Qualcosa disegnato con in mente la bellezza, e realizzato con delizia e cura. Qualcosa che ti fa felici gli occhi.
Non un guazzabuglio triste e casuale di stupidaggini riprodotte malamente.
Tu non ti accorgi, ma nella tua bella cucina tutta linda si affollano i fiori approssimati della tovaglia rosa, le geometrie giallo e marrone degli strofinacci, gli uccelli verdini del rotolo di carta, i quadretti azzurri dei tovagliolini, i cuori rossi e le greche imprecise del barattoli, le foglie nocciola sulle piastrelle beige, le margherite stampigliate in arancio sopra i piatti, le campanule turchine dell'insalatiera, le padelle e le pannocchie sulle presine, sghembe.
Si affollano e ti frastornano gli occhi, come un frastuono di rumori stupidi.
Perché non è vero che non è importante quello che ti vedi intorno: non ci fai caso ma ti abitui un po' per volta a tante piccole inutili bruttezze. Così ci siamo assuefatti al dozzinale, al tirato via, allo stampato in qualche modo, al simulacro di fiore, all'elefantino come lo disegna suor Giuliana, al quadrettato di colori a caso.
Se non possiamo permetterci piastrelle decorate bene, allora siano bianche, santo cielo. O azzurre, o verdi, o nere. Ma quei bambù marroni, quegli aborti di glicini e di rose, poi li vedi tutti i giorni, sai. Le prime cose che vedi ogni mattina sono volgari, sconsolate e brutte.
Io sogno da anni un negozio che venda le cose di ogni giorno, quelle basiche, le calze e le tazze, gli strofinacci e le magliette, i tovaglioli e le mutande, i barattoli e la carta igienica e le tende e le piastrelle, che le venda bianche, bianche e basta.
Perché l'inquinamento delle piccole cose è un altro genere di lupatoto, che un po' ogni giorno ti avvelena di trascuratezza, di minimi orrori che non ti accorgi di vedere.



Non avere nella tua casa nulla che tu non sappia utile, o che non creda bello. 
(William Morris, La bellezza della vita)
 
venerdì, 21 ottobre 2011

Ecco, questa cosa del sangue. Mi stupisce sempre la gente che in tv e sui giornali si abbevera di fiumi di sangue, di morti ammazzati veri e finti, di cadaveri realmente massacrati e di quelli impiastricciati di colorante rosso, di schizzi che imbrattano i muri, di scie sul pavimento, di esplosioni di teste, di pozze che si allargano sotto persone disarticolate a terra, di dita che frugano frattaglie sui tavoli da autopsia. E poi dicono che loro a fare l'esame del sangue svengono. Perché sono sensibili, proprio non sopportano.
Quelli che no, non so pulire un pollo, non l'ho mai fatto, ma dio che impressione, che raccapriccio, morirei.
Quelli che oddio ti sei tagliato, oddio guarda c'è il sangue, un cerotto, no non ce la faccio ad andare a prenderti un cerotto, devo sedermi, mammamia che senso.
Quelli che ma davvero peschi, ma come fai, ma prendi i vermi con le dita, ma davvero, dio io non potrei mai, ma poi il pesce lo uccidi?
Quelli che guarda fammi fare tutto ma non medicare una ferita, giuro non ce la faccio, il sangue, mi sento male, solo il pensiero, guarda.
Mammamia, quanto siamo distanti dalla vita.
 
 
domenica, 16 ottobre 2011

Siamo contro la violenza, va bene. Su questo tutti d'accordo, dai.
Diventa persino un po' stucchevole e barocco continuare a dirlo e ripeterlo "Ah, anch'io" "Ma anch'io, ci mancherebbe". Tutti d'accordo, va bene.
Detto questo, io mi sento sempre più a disagio nel sentire parlare di cortei e manifestazioni in termini di Una bellissima festa, tanta gente colorata e allegra che sfilava pacificamente, cantando. Più che una protesta, una scampagnata: tanti cartelli e strisconi, si, ma mamme e bambini, e cori e colori. Cosi vanno bene, le proteste, cosi van fatte.
E sfido. A chi mai può dar fastido un gruppone di gente, anche fosse moltissima, che passeggia al sole?

Ma che bravi, vedi, come protestano bene, come sono educati, carini, allegri.
Che dolci.

Magari sbaglierò, ma non riesco a non pensare che una protesta debba dare FASTIDIO.
Debba disturbare, debba mettere in difficoltà qualcuno, debba essere in qualche modo un problema.
Che venga graziosamente concesso di esprimere protesta purché nessuno protesti troppo, rabbia purché nessuno si mostri troppo arrabbiato, purché nessuno faccia troppo rumore, purché si lasci tutto pulito, purché nessuno rimanga turbato: ecco, a me inizia a sembrare un imbroglio.

Proibire una manifestazione creerebbe un sacco di problemi, va a sapere poi cosa gli verrebbe in mente, che la facciano la manifestazione, poverini, han bisogno anche loro un po' di svago, un po' di sfogo.
Purché, naturalmente, si abituino a pensare che una manifestazione ben riuscita è quella che farebbero Heidi e Hello Kitty, una cosa tenera e canterina, un corteo di Hobbit che lanciano fiori nel dolce sole d'autunno.

Non voglio, sia chiaro, non voglio che nessuno si faccia male, non voglio che sia distrutto o  bruciato niente.
Però bisognerà pur trovare una maniera per far sì che una protesta torni ad essere una protesta: giusta, forte ed EFFICACE.
Perché se le città sono accondiscendenti e liete, se i governanti sono benevoli, tranquilli e persino inteneriti, sbaglierò ma a me qualcosa non torna più.

Tocca inventare qualcosa, io credo. Non so cosa, ma magari bisognerebbe povarci. Magari un sit in che blocchi tutto, magari liberare per le strade un milione di rane, magari versare bidoni di tempera gialla e verde e blu - lavabile per carità, ma sai il fastidio - magari solo le biglie come in Animal House. Non so. Forse ai ragazzi, ai più giovani e freschi, verrà in mente qualcosa. Spero.

Perché riunire mezzo milione di persone incazzate ed essere fieri di come tutto sia stato bello e riuscito bene, avendo ottenuto tre inquadrature di palloncini colorati e bei faccini a me sembra una truffa. Un po' come i Massì tesoro va bene, fai pure il piercing, è giusto che i giovani si sentano protestatari, però non troppo grosso. E lava le mani, e dì buongiorno alla signora, e non tenere la musica troppo alta in camera.

Finchè il modo in cui si protesta dovrà essere approvato sorridendo da coloro contro cui si protesta, mi spiace, a me continuerà a non tornare il conto.
 
martedì, 11 ottobre 2011

- Perché tu, oltre che bello, sei anche buono.
- Ahahahahah, ma dai... non è vero!
- Sì che è vero.
- Ma smettila, dai. E poi cosa intendi per "buono"?
- Buono: che non fai male a nessuno volontariamente, che se appena puoi fai bene a qualcuno deliberatamente. Buono. Dai, accidenti, sai benissimo cosa vuol dire: non te l'ha mai detto tua mamma, tua nonna "Sii buono"? E lo sapevi cosa intendevano, no?
- Sì, ma. Ma erano almeno trentacinque anni che non ne sentivo parlare. E poi, non so...

Ecco, appunto.
Quando è stata l'ultima volta che avete detto a qualcuno che era buono senza avere la vaga sensazione di offenderlo?
Non si dice più Sii buono. Si dice Fai il bravo. Che è una cosa molto diversa, mi pare: un modo di comportarsi, non un modo di essere. Si può essere perfidi, e comportarsi molto bene.
E, soprattutto, è vagamente insultante: buono fa pensare a qualcuno un po' stupidotto, un ingenuone, uno sprovveduto, un candido, un mite forse un po' vigliacco.
O, peggio, a un paolotto, uno che va a messa e aiuta il don all'oratorio, uno che non dice le parolacce, non si masturba e non si interessa di politica.
Uno di quelli di cui mia nonna avrebbe detto È un po' un SanQuintino.
Ora se si pensa a una persona buona viene più o meno in mente uno pallido e un po' bisinfio, con grossi occhiali e andatura lenta, che mette via i sacchi del supermercato ben piegati e mai darebbe, mai, un pugno a qualcuno.
Qualcuno che fa melense opere di bene e non se ne intende di tecnologia. Qualcuno non molto interessato al sesso.
Di uno strafigo colto, abbronzato e muscoloso, di una bella donna tutta intelligenza e gambe, di un ragazzetto tatuato coi capelli in piedi e i jeans sotto le chiappe non ti verrebbe da dire È una persona buona. Eppure, perché no?
Eppure, no. Non si dice più. Sono anni che sento dire solo "No, sai, XXXX è davvero una bella persona".
Come se la bontà si fosse trasformata in un'attributo estetico dell'anima.

Non dico che sia giusto o sbagliato, non lo so. Solo, mi domando quando.
Quando è stato che abbiamo iniziato a usare questi giri di parole, questi strani eufemismi? Quando è successo che la bontà è diventata una cosa leggermente vergognosa?



(ad esempio io mi vergogno un po', a pubblicare questo post.)

venerdì, 07 ottobre 2011
 

Quest'estate ho avuto paura delle stelle. Qui non ce ne sono quasi più, naturalmente, ma lì ce n'erano tantissime, più di quante abbia mai visto, e nonostante ne cadesse qualcuna ce n'era ancora un firmamento di milioni. E mentre le guardavo ne vedevo sempre di più: la via lattea fatta di oggetti e non di luce.
Così, invece di chiudere gli occhi e girarmi su un fianco per dormire, ho deciso di addormentarmi ad occhi aperti. Supina, a tre metri dal mare, volevo tenere gli occhi spalancati sulle stelle e lasciare che a un certo punto si chiudessero da soli.
Ma quando iniziavo a scivolare nel sonno, e tutto si sfuocava e diventava buio, all'improvviso - forse un rumore di onda, forse un soffio d'aria - ritornavo di colpo, in un istante, sveglia.
E in quell'istante lì, come in una messa a fuoco di velocità sbalorditiva, rivedevo le stelle, tutte e una a una, che mi esplodevano negli occhi tutte insieme. Arrivavano di colpo, ed erano miliardi.
Ho dormito pochissimo, perché continuavo a rivedere il big bang. E ho avuto paura: l'universo era vivo e mi guardava.




Perché mi è venuto in mente adesso? Non lo so.

venerdì, 30 settembre 2011


Come il nulla nella storia infinita, il lupatoto avanza.
In altri paesi ha dei confini precisi: c'è la campagna, poi il lupatoto, poi la periferia residenziale, poi il centro città.
Il nord Italia, invece, è un unico gigantesco lupatoto.
Un capannone. Un gommista. Tre villette, messe un po' di sghembo una rispetto all'altra, una giallo poltiglia, una rosa confetto con mattoncini, una marròn con pilastrini. Un distributore. Un MercatoneBuonPrezz. Un altro capannone. Una rotonda. Una concessionaria di veicoli industriali. Cinque villette a schiera con vista sulla concessionaria. Un altro capannone, più grande. Un elettrauto. Un rivenditore di piscine. Due villette, una con giardino l'altra no, entrambe con tapparelle beige e lenzuola sui davanzali. Una rotonda con aiuola di gramigna. Un MercatoneCompraBen. Un terreno incolto, con un'auto abbandonata tra i barbansotti. Altri due capannoni, con cancelli elettrificati e cani feroci. Un cimitero. Un distributore con lavaggio auto self service. Una CasaDelLampadario. Una palazzina di uffici di tre piani con vetri fumè. Una prostituta mattiniera. Sei villette a schiera. Un ristorante cinese. Un capannone, piccolo. Un semaforo. Un campetto da calcio con una porta sola. Un villino dell'ottocento coperto d'edera. Sei capannoni, tutti grigi tranne uno. Un MercatonePaghiMen. Un distributore. Una concessionaria. Un lavasecco. Una villetta con tende a strisce e ampio posto auto. Una CasaDelDivano. Una trattoria. Quattro villette con araucarie in giardino. Un cantiere. Un'isola ecologica. Un orto. Un capannone. Un rivenditore di materiali edili. Un capannone. Una villetta. Un capannone.

Là dove c'era l'erba ora non c'è una città. C'è un lupatoto.
E avanza: ogni giorno una ruspa si sveglia e sa che dovrà spianare le fondamenta per un nuovo capannone, ogni giorno una villetta si sveglia e si trova davanti alla finestra uno svincolo neonato.

Per sapere se sei nel lupatoto c'è un semplicissimo test in tre fasi.
• Primo: guardati intorno e domandati se, a perdita d'occhio, vedi un posto dove potresti fermarti a fare la cacca.
• Secondo: guardati intorno e domandati se, a perdita d'occhio, vedi un posto dove potresti fare un picnic.
• Terzo: guardati intorno e domandati se, a perdita d'occhio, vedi un posto dove potresti volere fossero disperse le tue ceneri.

Se trovi l'uscita, scappa.





Lupatoto:

-.Beh, dovremmo essere arrivati, no? Il cartello della città era cinque chilometri più indietro.
- Sì sì, ci siamo quasi: questo è il sangiovanni lupatoto di XXXXX, tra dieci minuti siamo in centro.
- Questo è il cosa?
- Il sangiovanni lupatoto, questo posto qui di capannoni e mercatoni è come sangiovanni lupatoto: è un paese, sai.
- Hahahahhahhahahaahhaahah, ma smettila! Non può esistere un paese che si chiama così, l'hai inventato.
- Che scema. Certo che esiste. San Giovanni Lupatoto, è nel veneto.
- Hahahahahahahahah! LUPATOTO...! L'hai inventato! Hahahahaahahahhahaha!
- Ma smettila. Esiste, giuro, smettila di ridere come una scema.
- HAHAHAHAHAHAHAAHHAAHH!
- Quando andiamo a casa guardiamo su gugol e vedrai. Se esiste mi devi una bottiglia di pastis.
- LUPATOTO...! AHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH!

Esiste. Ma la parola è così bella, così perfetta che non ha sinonimi: adesso finalmente avete un nome, per quello che vi vedete intorno. E che quello che guardate si stia lupatotizzando sempre più in fretta non fa ridere, in effetti.
giovedì, 13 dicembre 2007


E però io me li ricordo, gli operai.
Che mi viaggiavano vicino mentre andavo a scuola e riempivano il treno tutto intero e si addormentavano, subito.
E me li ricordo quando gli scioperi esistevano e non si chiamava sciopero il ricatto, e non sembravano sinonimi diritti e privilegi, istanze e prepotenze.
Mi ricordo che quando arrivavano in corteo io pensavo che allora fosse tutto a posto.
Quando arrivavano gli operai, quando arrivavano i metalmeccanici, “Arriva la Breda, sono arrivate la Falck e la Pirelli” io mi sentivo al sicuro.
Perché avevo quattordici anni e in corteo ci andavo, e mai i miei genitori mi han detto di non farlo, ma solo di stare attenta. E “stai vicino agli operai”. Perché c’erano le molotov e i bavagli e le pistole. E anche alla polizia bisognava stare molto attenti.
Ma vicino agli operai non c’era rischio. Non era il posto per qualcuno che facesse troppe pirlate.
E mi rassicuravano le loro mani così grandi e le loro facce così serie, e il fatto che sembrassero tanto forti, anche le donne, anche i più mingherlini. Tanto sicuri, tanto tanti.
Per questo mi sentivo certa, pensa, anche di aver ragione.
Perché nelle mie nebulosissime idee politiche di bambinotta liceale restavo perplessa, spesso, dalla verbosità fumosa e infinita delle assemblee studentesche, restavo sconcertata dalla un po’ isterica smania di romper tutto di certi cuccioli del maggio e dell’autonomia. Quasi sempre non capivo chi avesse ragione, e perché. Ma se arrivavano gli operai allora ero sicura fossimo nel giusto.
Perché son gente seria, perché hanno le palle, perché son stanchi, perché non han mica tempo da perdere. E se dicon loro che questa cosa qui non la si può lasciar passare, allora non può che esser vero, non la si può lasciar passare.
Per questo mi chiedo quand’è che son scomparsi. Quand’è che la classe operaia invece di andare in paradiso si è limitata a diventare un fantasma, quando ha cessato non di esistere ma di essere percepita, quando si è dissolta forse sotto i neon di un centro commerciale, vaporizzata da una raffica di consigli per gli acquisti.
E quando è stato che chi comanda le aziende invece di esserci arrivato salendo dal reparto ci è stato catapultato, già incravattato, da un master in administrescion senza sapere affatto se a fabbricare le piastrelle, i microchip o i motorini che escono coi camion giù dal cortile siano macchine o uomini. O scoiattoli, o gnomi.
E quando e come son riusciti a metterli uno contro l’altro, il regolare e il clandestino, anche se si passano i mattoni sulla stessa impalcatura, anche se dal ponteggio cadono proprio nello stesso modo.
E come son riusciti con tanta facilità a convincere i ragazzini che sia più dignitoso e di valore fare il tronista che il tornitore (che continua a sembrarmi impossibile che quella delle due cose di cui ci si dovrebbe vergognare e quella di cui andare fieri si siano invertite così, senza quasi far rumore).
Mi chiedo quando è stato che hanno iniziato a fare i buoni, a essere così tanto buoni, e silenziosi, e rassegnati, e forse è stato quando li han presi in ostaggio con il mutuo da pagare, quando a tutti noi hanno spiegato, convincendoci fin troppo facilmente, che avere debiti fosse un privilegio e non un cappio.
Mi chiedo anche quando tutti quanti abbiamo iniziato a essere così accomodanti e dolci, così morbidi nell’acquiescenza, così soffici nell’ingoiare precariato e paghe in nero e violazioni di ogni norma, così sonnolenti da accettare sbadigliando di scambiare il “nessuno nel mondo dev’essere sfruttato” con un “va bene se siamo un po’ sfruttati tutti, basta che qualcun altro lo sia più di me”,
Deve essere stato più o meno quando abbiamo smesso di pensare che lo Stato siamo noi, che la forza lavoro siamo noi, che i cittadini siamo noi, e abbiamo iniziato a pensare che lo Stato sono “quelli là”, che il lavoro è una debolezza un po’ vergognosa, forse un’elemosina, che i cittadini sono quelli che abitano in città.
E adesso non so come finire questo discorso, non so.
Ma so bene perché l’ho iniziato.

Via, via.

lunedì, 19 novembre 2007


E poi insomma, basta. Fuori tutti.
Fuori i rumeni che son tutti zingari e rubano e stuprano le donne.
Fuori gli albanesi che sono bruttini e sporchi e quando non insistono a volerti lavare i vetri è perché rapinano le ville, e nel frattempo stuprano le donne.
Fuori i nordafricani che sono tutti spacciatori di droga e stuprano le donne.
Fuori i musulmani che sono tutti fanatici e vogliono costruire moschee dappertutto invece dei centri commerciali che son così comodi, e aspettano solo di farsi kamikaze per andare a stuprare le loro trenta vergini.
Fuori i sudamericani, che fanno i barbecue nei parchi e bevono troppa birra e si picchiano e fanno un gran casino e stuprano le donne.
Fuori le moldave, le estoni, le lettoni, le lituane che son tutte puttane e sono così strafighe che mio marito gli sbava dietro e non vede l'ora di stuprarne un paio, potendo.
Fuori le nigeriane che non mi paiono granché belle ma son tutte puttane anche loro e mio marito infatti non sbava ma qualche pompino di certo se l'è fatto fare.
E fuori le ucraine che fanno le badanti, così si portino via una buona volta anche la nonna che con sto alzheimer ci ha bell'e rotto le palle.
Fuori i cinesi che siccome costano un quinto mi tocca comprargli le calze e le mutande e le tute dei ragazzi e le felpe e i jeans e le scarpe da ginnastica e dopo la mia ditta non regge la concorrenza e mi mette in cassa integrazione. E stuprano le donne, sicuramente, ma quelle non dicon niente perché dopo trent'anni non sono ancora capaci di parlar la lingua.
Fuori anche gli ebrei perché sembra sembra ma dove ci son di mezzo loro vengon fuori sempre guai.
Fuori gli iraniani, gli afghani, gli uzbeki, i curdi, i ceceni, tutta 'sta gente di questi posti del cazzo dove non c'è altro da fare che fare i terroristi, e stuprare le donne.
Fuori gli indiani e i pakistani che poi voglion tenere aperto il negozio tutta notte e io invece alle sette e mezza tiro giù la cler, che son mica scemo se voglio guadagnar di più a lavorare più ore quando mi basta far meno scontrini. E se non stuprano le donne è solo perché con tutto sto esser vegetariani non gli viene neanche duro.
Fuori i senegalesi che sembrano tanto innocui con le loro borsette false e quell'aria così cordiale da ragazzoni sorridenti che sicuramente nascondono qualcosa. E se le donne non le stupran loro, che i neri si sa quanto sono attrezzati, chi mai le dovrà stuprare.
I filippini quelli possiamo tenerli, che qualcuno che faccia le pulizie bisognerà pure che ci sia.
mercoledì, 16 maggio 2007


Quando vado in pensione vado anch'io, a guardare i cantieri.
Sul margine della fettuccia di recinzione, sull'orlo dello scavo, le mani dietro la schiena, l'espressione seria. Ogni tanto dare qualche consiglio anche, un po' a mezza bocca: "La trave là va fissata bene eh, che vien giù." O scuotere appena appena la testa, che quel mestiere che ha fatto quel ragazzo lì, quel magrolino, non mi convince mica.
Non vedo l'ora. Perché adesso ho capito perché lo fanno: per passare il tempo si può anche andare a giocare a bocce, non è quello il punto. 
C'è da spendere un sacco di tempo e di concentrazione invece, di attenzione vigilissima, per capire quello che vorrei tanto capire anch'io. Capire come fanno.

Come fa un manipolo assortito di bergamaschi e algerini, di sessantenni brembani, diciottenni rumeni e torvi quarantenni magrebini a costruire un grattacielo, un raddoppio ferroviario, un'autostrada senza che nessuno gli dica cosa fare.
Qualche cantiere l'ho guardato anch'io, per qualche tempo - sai mai che mi capiti un prepensionamento - e non ho mai visto qualcuno che desse ordini più complessi di quanto può stare in una frase di tre parole, sovente gridata su e giù da un ponteggio: "Tira süü!" "Molla... ancora, ancora... Bona!"
Le istruzioni - molto laconiche e spesso limitate a gesti e suoni gutturali, cosa perfettamente funzionale dato il comprensibile gap linguistico - sono relative ad una azione o a una limitata serie di azioni, e sembrano sufficientemente adeguate allo scopo.
Ma io mi domando come possano correlare con tanta apparente decisione questi frammenti di gesti, quel secchio proprio adesso, quel buco grande così e non di più, col quadro generale: non cesso di domandarmi chi di loro abbia in mente il piano complessivo.

Sono mesi e mesi che, un quarto d'ora ogni mattina, seguo con attenzione i lavori di raddoppio ferroviario. Roba complessa, mica un muretto di cinta: sbancamenti fondi come case di tre piani, posa di immense travi metalliche trasportate e messe in opera da mezzi giganteschi, poderose gettate di cemento con betoniere a torre, chilometri di tondini da saldare, gru, escavatori, perforatori pneumatici, decine di uomini che lavorano, uno qua, tre là, due là in cima, quattro lì in fondo. 
E mai, mai ho visto un disegno.
Mai, in tutti i cantieri che ho osservato in vita mia ho visto un solo pezzetto di carta, uno schizzo, un foglio di bloc-notes.
Nelle pubblicità si vede sempre uno con la faccia da ingegnere e il caschetto giallo che squaderna un disegnone davanti a uno con la faccia da capocantiere, e subito dietro quelli con la faccia da capomastri osservano attenti, tutti col caschetto giallo, mentre i raggi del sole indorano il pulviscolo e i loro rudi e franchi visi abbronzati.
Nella realtà evidentemente ingegneri pallidi e furtivi mostrano di nascosto i disegni al capomastro nottetempo, laggiù nella baracchetta di lamiera, rapidi e in silenzio, al riparo da occhi indiscreti. Il geometra fa il palo sulla porticina e quando l’oscura transazione è terminata mastica e inghiotte il foglio per non lasciare tracce.
Il capomastro poi, la mattina, avendo memorizzato perfettamente tutto il grattacielo, arriva in cantiere e sa esattamente di che misura far tagliare i tondini a Ivan e in che punto Ahmed deve fare la gettata. Nemmeno glielo dice, però. Basta uno sguardo.

Quando c'è, un capomastro. Nella più parte dei cantieri - in quelli delle opere pubbliche direi nella totalità - ci sono operai variamente sparpagliati, ognuno intento al suo lavoro, generalmente, va detto, con molta concentrazione, ma apparentemente nessuno che tiri le fila, che spieghi una procedura in vista di uno scopo, che anche solo a gesti mimi una direzione, una forma, un'altezza.
Rarissimo, tra l'altro, veder qualcuno che prenda una misura. La gettata ecco, fino a lì, questi due dove li saldo, li saldo qui e poi vado avanti a giuntarli fino là, diciamo.
L'altro giorno per questo ho osservato affascinata di stupore la cura con cui un tarzanetto attempato misurava dei pezzini di legno prima di passarli sotto la sega circolare. E poi li accostava uno all'altro e li guardava attento, che fossero bei pari. 
Gliel'avrà detto l'ingegnere all'alba "Falli lunghi un metro e trentatrè", o il capomastro ieri sera sul tardi mentre lo salutava dal furgone, o il capocantiere tre mesi fa, prima di svanire nell'oblio? 
Di certo io non ho visto nessuno che glielo dicesse. Lo sa, ma certo. Sa che per costruire un sottopassaggio automobilistico a tre corsie - in curva - sopra a cui passano due treni van tagliate cinquantasette assicelle lunghe un metro e trentatrè.

E allora mi consolo.
E mi rilasso. 
Incrocio le mani dietro la schiena e mi colma una infinita pace: il capomastro nessuno sa chi sia, il capocantiere non si fa mai vivo e l'ingegnere forse nemmeno esiste, nessuno ha mai visto un disegno e io e Safran qui, che mi tiene la trave, non parliamo nemmeno la stessa lingua. Eppure lo tiriamo su, sto cazzo di grattacielo.
 venerdì, 16 marzo 2007


L'odore della paglietta che sfrega il sugo di pomodoro.
L'odore della birra sullo strofinaccio nell'angolo del pavimento.
L'odore dell'aglio che salta nell'olio bollente.
L'odore del vino rosso rimasto sul fondo dei bicchieri.
L'odore delle torte che cuociono nel forno.
L'odore della sera dalla porta.
L'odore del prezzemolo e del pepe.
L'odore dello Splendor Piatti dentro i polpastrelli.
L'odore dell'acqua bollente già salata.
L'odore del formaggio che fonde e carbonizza sulla piastra.
L'odore della cantina.
L'odore di pane della bruschetta.
L'odore del frigorifero aperto.
L'odore della schiuma del latte che bolle e fischia.
L'odore del sudore di chi lavora accaldato.
L'odore del campari col bianco.
L'odore della sigaretta che entra assieme all'aria fredda.
L'odore del burro sciolto con la salvia.
L'odore dello straccio azzurro in fondo al lavello.
L'odore del turacciolo prima di versare.
L'odore di ferro dei coltelli.
L'odore di vapore che sbuffa dalla lavapiatti aperta.
L'odore del dopobarba di chi ha fatto la doccia prima di andare al bar.
L'odore delle padelle mentre le asciughi.
L'odore delle patatine nella ciotola.
L'odore di ghisa rovente dei fornelli.
L'odore del legno dei tavoli.
L'odore dei posacenere quando li svuoti.
L'odore di tutti i salumi a brandelli dietro la lama dell'affettatrice.
L'odore del filtro della lavastoviglie.
L'odore dei grembiuli quando li togli.
L'odore del whisky di dodici anni.
L'odore del fondo del caffè che è il rumore di quando lo sbatti, giù giù in quel pozzo, che chissà dove mai andrà a finire ancora non lo so.
 
mercoledì, 31 gennaio 2007


Si pregano i signori condomini di pulirsi il sangue dalle scarpe prima di utilizzare l'ascensore.

Italiani brava gente.
Gente per bene, che non ruba, che non si droga.
Che parla poco e dice poche parolacce, che si veste come si deve, che tiene bel pulito.
Gente che sta nel suo, che va a letto presto e fuma poco, lavoratori, gente che il biglietto del tram lo paga.
Tutta gente onesta, cattolica, battezzata e cresimata, sposata nel modo giusto, in chiesa.
Mica come quei senza dio che manipolano gli embrioni. Loro i bambini preferiscono manipolarli a coltellate quando son già nati, che dà più soddisfazione.
Mica come quei delinquenti dei pacs, che distruggono la famiglia. Loro le famiglie le fanno a pezzi a sprangate, che si fa prima.
Brave persone che fan poco rumore, bravi giovanotti mansueti e un po' torpidi che portano gli zii a fare una gita in macchina, a pezzi nel baule.
Brave mammine casalinghe perfette con la frangetta lustra, che mettono le pattine e lavano col vim il martello con cui hanno rotto il crapino di quel discolo del figlioletto.
Brave ragazzine belline che col fidanzatino non perdono tempo a limonare perché hanno da affilare le lame per scannare mamma e fratellino.
Bravi e robusti operai che quando han bisogno di soldi invece di cercare un finanziamento in banca cercano un bebè da rapire e però, siccome coi bambini proprio non ci san fare, per farlo smettere di piangere non gli sovviene altro che prenderlo a badilate.
Non so voi ma io preferisco i lupi, di cui ho ben presente dove e come sono gli artigli e i denti, a questi cupi agnelli da appartamento con la mannaia nel sacchetto dell'Esselunga.
Preferisco qualunque lupo a questi pecorelloni mansueti e sanguinari, a queste agnelline con gli occhi di ardesia gelata.
Da un sondaggio recente risulta che tra le paure della gente ai primissimi posti figurano i terroristi, gli stranieri, gli zingari. Mammamia gli zingari. Rubano i portafogli, aiuto. Rubano i bambini.
Non so voi, ma se io fossi un bambino preferirei - molto - essere rubato dagli zingari piuttosto che macellato dalla dirimpettaia.


E non mi interessa qui, ora, il fatto di cronaca in sè, o la psicopatologia criminale, o il perchè e il percome.
Ma il fatto che forse abbiamo un po' perso il controllo di ciò di cui è adeguato aver paura.
Dal rapporto Eures-Ansa 2006 si evince che due omicidi su tre sono in ambito familiare: molti molti di più di quelli causati dalla criminalità comune.
Eppure abbiamo paura dei delinquenti e non dei parenti.
E su 600 morti o giù di lì un terzo sono stranieri, rumeni, marocchini e albanesi ai primi posti: per gli stranieri il rischio di morte è 7 volte superiore rispetto a chi è di nazionalità italiana.
Eppure abbiamo paura degli extracomunitari, quando sarebbero piuttosto loro a dover essere terrorizzati.
Negli ultimi anni in Italia ci sono stati zero morti per terrorismo e una media di 5.000 morti all’anno per incidenti stradali. Eppure abbiamo paura dei terroristi e non degli automobilisti.
Si sono verificati in Italia zero casi di contagio da aviaria e grosso modo 12.000 casi di salmonellosi all’anno.
Eppure abbiamo paura dei cigni e non delle cozze.
Abbiamo un folle terrore di essere rapinati e ci incamminiamo in ciabattine sulle vette (una ventina di morti all’anno in montagna e 25/30.000 incidenti sugli sci).
Attrezziamo tecnologici e costosissimi presepi di antifurti affinchè nessuno penetri nella villetta costruita nel letto del fiume, ai piedi della frana, sulle pendici del vulcano.
Teniamo la pistola e l'archibugio carichi per difenderci dall'eventuale furto di una catenina, li teniamo proprio lì sul comodino di fianco all'orsacchiotto del bambino, che così è comodo a giocare con tutti e due, guarda com'è carino quando fa bum bum.

È pericoloso avere paura, perché si diventa pericolosi.
È molto pericoloso avere paura, perché si diventa stupidi.
Ma ancora più pericoloso è avere paura delle cose sbagliate.

quando c'è la salute

sabato, 19 gennaio 2007

Appena sveglio un bel caffè doppio, lo dolcifico con l’aspartame perché mi piace stare in forma. Intanto si scioglie nel bicchiere la compressa di multimineralimultivitamine, col suo bel colore arancio acceso. Oggi è lunedì quindi niente pastiglia per regolare l’intestino (con tutto quell’aspartame almeno un giorno sì e uno no va presa, se vuoi star bene).
Mi è parso di avere come un accenno di tosse perciò a metà mattina devo ricordarmi che ho deciso di partire con l’antibiotico, giusto per prevenire tutta questa influenza che c’è in giro. A pranzo un’insalata per star leggero, tanto a darmi l’energia per il pomeriggio bastano il guaranà e il ginseng (ne prendo il doppio di quello che sta scritto sulla confezione, così vado sicuro).
Col quarto caffè mi piglio anche un paio di moment: le riunioni mi fan sempre venire il mal di testa, preferisco tenermi pronto. Il quinto lo bevo poi prima di uscire per la palestra, insieme a un aulin, perché la riunione è stata parecchio tesa e mi ha fatto salire un po’ di mal di stomaco. E invece devo essere in forma, che il trainer giusto oggi mi fa provare questo preparato nuovo, di importazione, che pare sia una bomba. Per i muscoli tonici, sai. Che a quelli ci tengo, devi vedermi in discoteca poi: con quattro redbull non mi ferma più nessuno. E combino sempre, altrochè. Del resto son cavaliere e le tratto bene le donne: due viagra e le faccio felici. Non che abbia mai avuto problemi, eh, ma non si sa mai, meglio prevenire. Stasera no però: giusto un’aperitivo in centro, ai soliti tre negroni con gli amici non rinuncio. Poi a letto presto, mi piglio anche la mia bella melatonina che fa dormire e fa bene.
Non fumo ci mancherebbe: mi piace la vita sana, mi piace stare in forma (che vado in palestra l’ho già detto?). Mica come quei ragazzini che si fanno gli spinelli. Altro che liberalizzare, tutti in galera li dovrebbero sbattere. Drogati.
 
martedì, 17 ottobre 2006

casa.

Questa è casa mia, dici. Ci son muri di mattoni e una porta, ci torno ogni sera, l'ho anche pagata (non del tutto magari, ma chi non ha in piedi un mutuo, oggigiorno).
È casa mia, misura da qui a là, son metri quadri conteggiati precisi che vanno, piastrella dopo piastrella, dal piano di inox della cucina alla finestra del bagno con la sua tendina un po' spessa, che non guardino dentro.
E certo, così resta facile: c'è un atto in Comune, un foglio al catasto, un contratto del gas. Ci son tre mandate di serratura, le foto dei nonni e le tapparelle abbassate, ci son le mie pantofole usate e la mia coppa del torneo di calcetto.
Invece una sera su una spiaggia, in un deserto, tra i monti, metti un telo per terra, e un altro a far da coperta.
Intanto vien buio, un buio troppo pieno di soffi d'aria e fruscii, di fremiti e ombre, per essere vuoto. Hai spostato due grosse pietre per poterti sedere, e una è un tavolo dove appoggi il pane, il formaggio e il coltello. E hai acceso una candela (antivento, che se non sei scemo son diecimila anni da che hai imparato a non dar fuoco ai boschi).
Poi ti allontani, magari a far la pipì, ti immergi nel buio come nell'acqua, col volo bianchissimo e muto di un barbagianni che si fa i fatti suoi muovendo ali veloci nell'aria appena sopra di te, senza alcun rumore.
Quando ritorni vedi quel cerchio di luce, impreciso e perfetto, che contiene i due metri di terra dove dormirai stanotte e che per questo solo motivo sono il tuo letto, vedi il tuo cibo e la bottiglia del vino, vedi forse qualcuno con in mano una tazza.
Questo è il tuo territorio, la tua casa stanotte o, chi può saperlo, per sempre.
E lo difenderai tirando tutta la notte dei sassi, muovendo appena una mano per trovarne uno lì intorno, gettandoli ben dentro il nero di quei cespugli da dove arriva il muoversi di un ghiro o un coniglio. 
E non lo farai per fargli del male, nemmeno pensi a colpirlo, è solo un avviso: qui ci sto io, qui non devi venire.
La casa più antica, la prima, aveva pareti di buio intorno a una fiamma.
Ancora oggi continuiamo a saperlo, quando per sentirci caldi, sicuri e vicini smorziamo la luce perché crei un alone, quando accendiamo un lumino o un camino. Ancora adesso in tinello o al ristorante, quando sembra solo un gesto carino - se non quasi melenso, che ci pare di avere imparato dai libri e dai film - anche ora ci pare giusto il lume di una candela per chiamare qualcuno nel cerchio, perché diventi un po' nostro.
È lo stesso messaggio di promessa e minaccia, di calore e di sfida che vibra intorno a ogni tana, da prima del fuoco e per ogni animale: "Io, noi siamo dentro, tu, voi siete fuori".
A delimitare ciò che ti appartiene non sono i muri che costruisci, ma il raggio della luce che hai acceso.

venerdì, 22 settembre 2006


Prova a pensare che per centinaia di migliaia d'anni - anche milioni, se te lo ricordassi - sei praticamente sempre stato all'aria aperta.
I luoghi chiusi te li sei cercati, e poi costruiti, solo per difenderti da qualcosa di precisamente dannoso: dalle belve feroci, dai nemici, dalle intemperie, da ragni, topi e serpenti (da questi oltretutto non ti è mai riuscito bene). Se il tempo era bello, se non c'erano bestiacce in giro o nemici nei dintorni non ti veniva neanche in mente di stare al coperto, perché mai avresti dovuto?
Per migliaia d'anni, fino all'altroieri, era fuori che vivevi: nei campi arati e in quelli di battaglia, negli orti e nei frutteti, su barchette e greti, nei boschi nelle paludi e sugli alpeggi, su e giù per strade mulattiere carrarecce e sentierini o traversando i prati che si fa più in fretta.
Era all'aperto il mercato dove andavi a vendere e comprare, aperta la piazza dove facevi due chiacchiere, trattavi politica e affari e facevi scambio di notizie, dove guardavi viandanti teatri e giocolieri e a volte qualche bel rogo o impiccagione.
Fossi soldato o contadino, pastore mercante o fraticello, pollivendola o cacciatore, pellegrino fattucchiera puttana o pescatore era proprio soltanto se faceva molto, molto freddo o pioveva davvero troppo forte che ti chiudevi in un posto riparato. O magari per dormire, che passando il tempo di gentaglia in giro ce n'è stata di più, anche se di animali cattivi sempre meno.

Prova a pensare a quello che fai adesso, invece. 
Ti alzi la mattina in una stanza ermeticamente sigillata, d'inverno perché è freddo, d'estate perché c'è l'aria condizionata accesa e nelle mezze stagioni perchè è sempre meglio evitare gli spifferi: aria di fessura è aria di sepoltura, chi è che non lo sa.
Dalla finestra vedi altre finestre, se ti sporgessi e ti torcessi a sufficienza magari anche un pezzo di cielo ma non ti viene in mente, e poi comunque i vetri son scomodi da aprire, con tutti questi diversi strati di tende imposte tapparelle e paraspifferi, veneziane e mantovane.
Dopo colazione esci di casa, chiudendo con cura dietro le spalle una porta blindatissima che hai pagato molto di più di quanto vale quello che un ladro ti potrebbe mai rubare entrando, lasci che ti si serrino morbide davanti le porte di un ascensore che ti include nella sua capsula rivestita in finto legno, giù fino al garage. Fai qualche passo nella penombra odorosa di benzina ed entri in macchina, dove prima di partire ti assicuri, con molta attenzione e l'ausilio di diversi dispositivi elettrici ed elettronici che siano perfettamente chiuse le portiere e il baule e che siano ben allacciate tutte le cinture. Avvii motore, aria condizionata e riscaldamento e parti.
Ascolti la radio nel tragitto, o musica soffusa che riempie e colma l'abitacolo impermeabile e metallizzato e fai gesti con la mano e con la bocca all'uomo che vorrebbe lavarti il vetro, senza parlare tanto non ti sente, e tu non senti lui. Deponi l'auto nel box dell'azienda o se sei proprio uno sfigato e lavori per un ente non fornito di parcheggi sotterranei ti tocca fare qualche metro a piedi, magari pioviggina anche: sono sofferenze, queste.
Per fortuna poi c'è un'altro ascensore e una serie di locali - ufficio, fabbrica, ospedale, scuola - ben chiusi e puliti, dove trascorri la tua operosa giornata respirando aria più volte riciclata e ben climatizzata.
Sulla via del ritorno ti infilerai a sudare in compagnia, nell'umido calore di acari e di piedi di una palestra moquettata e in seguito, parcheggiando sotto che nemmeno devi mettere il soprabito o impolverare i sandaletti, passerai da un supermercato o meglio ancora da un centro commerciale, dove trovi anche il parrucchiere la tintoria il cinema e la pizza da asporto senza che ti tocchi uscire, sai mai che faccia caldo, o piova.
Torni a sera (è sera? pare di sì, a un dato momento dev'essere venuto buio, vai a sapere quando) nella tua accogliente casetta, blindi il portoncino e accendi la tv per vedere cosa succede nel mondo (cosa succede sulla Terra, ché potresti vivere su Venere o sulle lune di Giove, tanto pochi contatti hai con l'atmosfera, l'aria, la temperatura).

E poi ti stupisci se ti senti un po' così, un po' chiuso, un po' oppresso ma non sai bene da cosa. Ti stupisci se non sai più pensare cose interessanti, quelle belle cose che ti venivano in mente quando ti trovavi per ore con il buio assoluto tutto intorno e miliardi di stelle davanti agli occhi e inventavi tutti i modi in cui poteva essere fatto l'universo, quelle cose carine che inventavi quando tra le onde e le maree, ravanando con i legnetti nella sabbia, buttando sassi nei burroni o facendo falò che illuminavano dal basso le foglie nel bosco escogitavi le leggi della fisica e della geometria, costruivi poemi e sistemi interi di filosofia. Quelle cose buffe che quando vedevi l'alba soffiare tra i pini ti veniva da ridere pensando che il mare aveva proprio lo stesso colore del vino.
Non sai più distinguere una quercia da una carota, una bassa marea da uno tsunami, ti fanno schifo la terra e la polvere (e anche un po' l'erba, che chissà quante bestie c'è nascoste dentro), non vedi un'aurora non incorniciata da uno stipite di finestra dai tempi della rivoluzione industriale, passi mesi interi senza uscire all'aperto e ne sei tutto soddisfatto perché la pioggia il solleone il vento il fango e le intemperie li trovi un'insensata e snervante seccatura.
E poi ti stupisci se ti senti come dire, prigioniero. Non è il capo che ti opprime, non è la moglie che ti lega, non son le rate della macchina che ti premono sul petto. È proprio che ti manca l'aria.

(Ah, no, scusa. Tu invece vai a correre una mezz'oretta al parco - ogni tanto - è vero. Fai bene. Rimane un po' vicino alla tangenziale quindi gli odori son più che altro di scappamento e di benzene e l'han piantumato solo quindici anni fa perciò gli alberi sono poco più alti di te. A sapere che alberi sono: ma tanto sono oriundi di un altro continente, ché gli architetti paesaggisti trovano molto più fini le essenze un po' esotiche, un po' particolari: sono alberi immigrati, arbusti extracomunitari molto poco integrati. Qualche uccellino ci sarebbe, sopravvissuto alle cornacchie, ma non lo senti perché ci hai su l'Ipod. Meglio, così non senti neanche le cornacchie che fanno un brutto verso - ma pensa, son cornacchie: pensavo fossero falchi o gabbiani... ma son poi tutti uccellotti, un po' tutti uguali alla fin fine. 
Il tempo è mite, altrimenti non saresti uscito, siam mica nati per soffrire, animali selvaggi feroci o velenosi non ce n'è, salvo il tuo pitbull, quindi puoi rilassarti con una corsetta leggera e tutto il tempo per pensare con calma a quella questione di lavoro che domani devi assolutamente definire. Fai bene. La natura è una gran bella cosa.)
 
giovedì, 04 maggio 2006

Dunque, siamo germogliati.
Nascere è difficile, è faticoso, ma ogni tanto capita.
Capita più frequentemente in primavera, ma non sempre. Succede che ti senti un po' strano e un po' sbagliato, come ti stesse stretta la pelle, il guscio, e inizi a dibatterti, a girare in tondo attorno a te stesso, a secernere un lungo filo aggrovigliato di bava e di pensieri finché ne sei tutto avvolto. E lì dentro naturalmente non risulti molto comunicativo, più che altro sei concentrato, zitto e a denti stretti, a spingere e tirare, ad avvoltolarti e lottare con antenne piume e gemme, da far spuntare o da strappare via.
I bozzoli sono scostanti e irsuti, danno poca confidenza. Attaccati in cima per un niente come bucato steso alle intemperie, sballottati tra temporali e grandine, tra sonno metamorfosi giramenti di palle e arcobaleni, sono molto presi, hanno da fare.
Poi finalmente in una mattina di sole germogli e nasci, sgusci dall'involucro sospirando di sollievo, con le tue ali e zampe tutte nuove, iridescenti, metallizzate e pronte che si muovono tutte insieme.
Sei diverso da prima, un po' più farfalla o un po' più ragno, con tre foglie di basilico, una d'aglio e due di ortica.
E ti spalanchi al vento e ti asciughi al caldo prima di svolazzare via tutto contento e indaffarato, adesso che il mondo è tornato a posto, tu sai esattamente dove sei e ci sono un sacco di tele nuove che non vedi l'ora di stendere tra un ramo e l'altro.
Certo, si sa che volte basta un vento forte a farle volar via. Vola di tutto, in queste stagioni: pollini e pappi di pioppo, polvere e ragnasse, piume di salice e fiocchi di tifa, rondini, soffioni di tarassaco, svassi e dirigibili.
Che le ragnatele sembrino faccende fragili, fatte più che altro di invenzioni e di saliva, questo noi ragni lo sappiamo bene.
Ma di questi materiali ne abbiamo in abbondanza, e anche di zampe e occhi e bocche, così dondoliamo e facciamo ridanciane giravolte, a testa in giù, appesi a un filo serico lunghissimo d'acciaio, tra l'erba e il noce.
 

nuvole




martedì, 18 aprile 2006

Sono stata a vedere Magritte sabato e da allora ogni nuvola, ogni finestra, ogni albero nero contro il cielo mi fanno un effetto diverso. Come starci dentro, come vedere profili di colombe aquile e volti dove ci sono solo stelle, come vedere foglie con becchi e piume di uccelli germogliare sugli alberi.
Come questa primavera per mezz’ora calda e per un’ora gelata, che si rovescia di senso all’improvviso tra limpidezze turchine e fredde nuvole. 
Come tutti i significati che si rovesciano se li guardi da un’altra parte, se inverti la figura con lo sfondo, se scompagini i rapporti dimensionali e metti una nuvola immensa in un bicchiere: sarà che la nuvola non era così grande o sarà che il bicchiere contiene davvero tanto, tanto di più di quello che pensavi? Sarà che è giorno pieno, un giorno tanto scuro da essere illuminato appena da un lampione o sarà notte con un firmamento straordinariamente chiaro e luminoso?
E tu dove sei, dentro o fuori la cornice, tu fata ignorante con una candela che fa buio, tu che non sei un pomo e non sei una pipa ma forse ridi dietro una mela, dietro una bombetta. 
Poi magari impari anche che roccia e vapore acqueo hanno lo steso peso, che l’essere solidi e massicci e impenetrabili vale quanto l’essere aerei e soffici e mutevoli, attraversabili e scompigliabili da ogni brezza.
In mezzo, a guardare come un sorriso, come la pancia di una lucciola, come il profilo di un calice di cristallo c’è la luna. Anche quando non si vede.

(Il titolo di un quadro era “Dio non è un santo”, e questo è fuor di dubbio.)
 

Una mappa


martedì, 14 marzo 2006

Ci perdiamo lo stesso, ma ostinatamente continueremo a fare carte e mappe.
La mia, qui.
Tutte le altre, qui http://www.sacripante.it/007/
 
 

Ti ho fatto una mappa, vedi. L'ho fatta così mi puoi trovare, che questo mondo è così pieno di strade e non voglio che ti perdi, voglio che tu mi trovi.
Non sono tanto brava a disegnare, però mi è venuta bene: ci ho messo tutto, e ci ho messo tanto a farla.
In alto, lì, quella punta è la montagna, quella da dove arrivo. Non ho mai avuto tempo di raccontartelo bene da dove vengo, poi magari non ti importa nemmeno tanto, ma io l'ho messo sulla mappa, lo stesso.
L'ho fatta a punta perché non so che forma ha davvero, e perché era una montagna appuntita, di rocce e boschi freddi all'ombra, e quella lì è la mia casa. Non si vede granché, non me la ricordo bene, forse era anche quella in ombra, nel buco più scuro che fa il sole quando va dietro all'altra montagna grande. E quella che viene giù tutta storta così è la strada, piena di tornanti: in cima dove c'è quel punto si prendeva la corriera, all'angolo del bar, non lo so disegnare il bar.
È così la strada, che in corriera chi non era abituato gli veniva da star male, tutta a curve come un serpente, vedi. Come quella biscia che me lo ricordo ancora, che l'ho vista una mattina attraversare il sentiero e la Angiolina che saltava e strillava "La serp, la serp!" ma io invece ero lì ferma a guardarlo quel serpente grande, nero quasi verde che si muoveva come una esse, come un'onda nella polvere, e l'ho detto "Ma va, non è una vippera, mica morde, non fa spavento." Le vippere sono più piccole e cattive e fanno male. Quello era un serpe lungo e scuro che si muoveva come se il mondo fosse suo, e me lo sono ricordato quando il parroco a dottrina parlava di adamoedeva e della tentazione, l'ho pensato proprio così quel serpente, con la testa dritta.
E non ridere, che lo so che forse ti sembrano un po' ingenue queste mie storie di bambina, ma tu sei il mio amore e devi sapere tutto di me, per questo te le disegno sulla carta e le racconto.
Disegno la scuola elementare a metà discesa, un quadratino giallo, che lì mi pare che si vedeva il sole a volte. E poi la scuola media un po' più in basso nella valle, un rettangolo più grande, ma l'ho un po' sfumato col dito perché di quella mi ricordo poco, e chissà come ti sarei sembrata buffa se mi avessi visto allora, così piena d'ombra con un serpente d'oro a cui non smettevo di pensare.
Quella riga incerta è quella che porta alle professionali, piene di brutti voti e baci strani e cose a cui non ho voglia adesso di darti dei nomi, e poi diventa una riga fatta a biro che gira, infinite volte e spessa, intorno alla ditta. Non c'è niente da disegnare su quel posto: è un posto dove si lavora, e basta.
Ma lì dove vedi la carta stropicciata, e tutto quel calcare e cancellare e ridisegnare ancora, lì è dove sei venuto tu: quei segnetti sono i raggi, le vampe di luce e buio della discoteca e non posso disegnare il fuori, non posso mettere su questa cartina il punto in cui sei arrivato, non saprei mai come fartelo vedere, come farti vedere com'è stato bello e brutto.
È passato del tempo, lo sappiamo io e te, e non sono andata a scuola abbastanza per saper fare i contorni della paura e la vergogna - non di te, che di te non mi sono mai vergognata, amore - ma delle cose che dicono le persone, delle ragazze facili che fanno le operaie e poi si fan scopare la sera nei parcheggi.
Ma queste sono cose brutte, su questa mappa non le metto. Le ho scritte e cancellate con la gomma e la saliva, tanto forte che in quel punto, mi dispiace, ho fatto un buco.
Poi sono andata avanti, con tutti i dettagli ho disegnato da dove vengo e dove sono adesso: perché ti aspetto, perché non ho smesso mai di aspettarti, amore mio. E non ho smesso di pensare il tuo sorriso, che ci ho pensato così tante volte che lo so a memoria, come se lo vedessi, adesso. Ho provato a disegnarlo, in mezzo in alto, ma non mi viene mai abbastanza bello, quindi niente.
In basso, quasi sull'orlo, c'è un cerchio. L'ho fatto perfetto così, al primo colpo, io che proprio non disegno bene.
Intorno a quel punto c'è un contorno: lo vedi, vero, inciso forte con l'unghia, un solco. Perché è così che ci ripenso sempre a quel momento, con il dover ficcare le unghie dentro qualcosa, a fondo, e con un gemito tenuto dietro ai denti, che se avessi allargato il fiato tanto da farlo uscire mi avrebbe squartata, sai.
E dopo c'è tutto quello spazio, che è deserto ma che ho riempito di puntini. Per non lasciarlo vuoto, e perché poi ogni puntino è un giorno, piccolo nero senza dimensione e stretto, e sarebbero molti più di così ma non ha senso disegnarli, tanto hai capito, sei l'unico che mi capisce sempre, tu.
Da lì, guarda, prende forma questa traccia, che è quando mi è passata la tristezza perché ho pensato che potevo fare una mappa e allora mi avresti ritrovato.
Da lì parte il tratteggio, sottile di matita, però dritto. Dritto come la strada che ti riporterà da me, perché io la mappa l'ho portata, in una notte verso l'alba fredda e scricchiolante come quella, nello stesso posto, nel posto esatto dove ti ho lasciato.
Tu sai dov'è e la troverai: l'ho messa lì, nel cassonetto, amore mio.
 

venerdì, 03 marzo 2006

Primavera

Silvina tornò a casa verso le quattro e mezza e chiuse la porta, con tre giri e la catenella.
Attraversò senza accendere la luce il corridoio e andò a riporre per bene nell'armadio il cappotto nero, quello bello. Poi mise le pantofole e andò in cucina e lì si rese conto che non aveva più niente da fare.
La casa era a posto, sapeva di brodo, di caffè e di Pronto, pulita come un confetto: per far fronte come si deve a tutto l'andirivieni di persone per giorni si era alzata alle cinque del mattino. Perfino i centrini aveva lavato e inamidato, rigidi come tortine di zucchero sotto le biscottiere, le foto e i fiori secchi. 
In piedi tra il tavolo e l'acquaio si accorse che per la prima volta da quando arrivavano i ricordi non c'era nessuno per cui cucinare.
Ogni giorno l'orologio era stato diviso sempre in tante piccole giornate, ognuna da portare a compimento, la colazione, il pranzo, la cena. E quando c'erano stati i bambini una in più, anche la merenda.
Con le molte altre faccende che c'erano da fare in mezzo, certo, ma ognuno di quei tragitti giornalieri aveva la sua meta, il suo orario di cose da portare in tavola. Mondare il prezzemolo, sgranare i piselli: i primi servizi resi, nella sua memoria, al bisogno di arrivare caldi e giusti alla scadenza. Non dopo, bimba, adesso: che i piselli alla mamma servono subito, che è già ora di metter su la minestra.
La giornata era facile, divisa in pezzi così, come un tocco di burro. Tante cose da fare prima di pranzo e cena, che le ore vanno e non si deve sbagliare ad esser pronti per quelle impazienze brusche, per quella fame che si aspetta il piatto.
Aveva pur mangiato anche lei, e le era piaciuto. Ma non per quello era da fare: lei si era nutrita come nutriva il gatto, gli altri li aveva messi a tavola.
In tutta la vita aveva avuto da pensarci, cosa e come e quanto e per chi: i vecchi inappetenti e gli adolescenti ingordi, le golose zie tiranniche e i bebè per cui frullare, i bambini da far crescere e
gli anziani ipertesi, e un uomo che non lasciava sfuggire mai nessun errore, nessuna presa di sale mal dosata.
Così nel silenzio riflesso dal laminato e dal lavello, guardando l'asciugapiatti coi disegni di mulini appeso al suo gancino, alla ventosa, al muro, pensò che non aveva più nessuno per cui far da mangiare.
Quello che da quel giorno in poi sarebbe stato per lei e per tutti il suo povero marito non avrebbe più dovuto avere una tovaglia, un tovagliolo, un posapentola appoggiato in fretta per non togliere la vista del televisore.
Silvina stava in piedi pensando che mangiare per forza alle otto non vuol dire niente, forse.
Mandò via l’idea, sbalordita non tanto della sua stranezza quanto del fatto che fosse così proprio possibile di mangiare un pezzo di fontina davanti al frigorifero e poi magari andare a letto, di pomeriggio, a leggere del matrimonio di quell'attrice e poi dormire.
Si passò le mani sulla gonna e guardò dalla finestra che c'era ancora luce ed erano già le cinque, si stavano allungando eccome, le giornate. 
Se sapevo, se sapevo che aver morto il marito voleva dire fare quello che si vuole io gli volevo bene, era un brav'uomo, ma io lo avvelenavo tanti anni prima.
 
 
lunedì, 30 gennaio 2006

Il treno parte d'inverno. Un inverno crudo e candeggiato, imbozzolato da una crosta di ghiaccio granulosa e stretta, dove l'acqua del fiume è lattiginosa e grigia, quasi spessa, indecisa se addormentarsi in un gorgo congelato. La pianura e fin su sulle colline è irrigidita e muta dalla neve, che riflette tutta la sua assenza di colore su un cielo smorto di fatica.
Poi subito dopo Borgotaro entri nel tunnel ed esci ficcato a forza fino in fondo dentro una impensata primavera.
Pochi minuti di oscurità segnano il confine tra due stagioni opposte: il cielo è blu e risplende, prati e pendii sono già verdi e il torrente ha acqua viva e azzurra, gonfia di riccioli languidi e vezzosi. Tutto è giallo di sole e di stupore.
Al ritorno è la stessa cosa, inversa, passi sferragliando dallo sfolgorio all'annichilimento, da una primavera che già corre tutta indaffarata ad un inverno che sembra immobile per sempre.
E mi piace così tanto questo passaggio così veloce e sorprendente che resterei a giocarci non so quanto, correndo nella galleria a sporgermi un momento sulla neve per poi girarmi in fretta e precipitarmi di là dove è già tre mesi dopo, avanti e indietro, correndo a piedi tra una stagione e l'altra.
Magari anche fermandomi ogni tanto nel mezzo, al buio, a respirare forte col fiato che se mi volto da una parte si condensa e se mi giro dall'altra già sa di terra bagnata ed erba. Proprio nel mezzo, sul confine.
Perché i confini esistono, ma solo quelli che noi non stabiliamo.
Ogni confine che noi, poverini, dichiariamo è sempre e solo una convenzione: di qua io tu stai di lì, adesso lavoro e poi riposo, ieri amorosi oggi coniugati.
Facciamo finta, tiriamo delle righe col gessetto che l'universo allegramente oltrepassa infischiandosene - o forse nemmeno se ne accorge - del nostro cipiglio di sfida fiera e indomita.
E ne traccia altri di confini, quelli sì veri e reali: quelli che a valicarli tutto cambia. Li traccia e li nasconde, invisibili e affilati e solo quando sei dall'altra parte scoppia a ridere e con uno sberleffo
ti mostra quale impensabile frontiera hai attraversato senza nemmeno accorgerti, mentre leggevi il giornale o aspettavi venisse su il caffè, mentre pensavi ad altro - che quasi sempre poi si pensa ad altro,
a farci caso.
È la linea precisa e tesa come un filo sottilissimo d'argento che spezzi passando con le tue grosse scarpe e prima il natale era magia e dopo è rito; prima credevi qualcosa e poi sai bene che non era vero; prima c’era un virus ed ecco, è mutato; prima pensavi fosse amore e poi è già quasi un fastidio; prima qualcuno era lì così che semplicemente c'era e poi lo ami.

Passi da mille inverni a mille estati senza mai riuscire a capire quale sia quel punto preciso della galleria. Anche se ti fermi e stai attento: senti solo il tuo respiro e qualche goccia d'acqua cadere e il rumore lontano di un treno che sta arrivando, forte.
 
martedì, 06 dicembre 2005

Ci sono lavori, sui binari. Lavori grossi, di potenziamento e raddoppio: lavori lunghi anche, si parla di due, tre anni almeno. Quasi tutto il tragitto è da mesi fiancheggiato da un enorme, quasi ininterrotto cantiere.
È cantiere di scavo e sbancamento, costruzione di massicciate e sottovie: vuol dire che è luogo di attività pesanti, con tonnellate e tonnellate di terra sassi e fango, con autogru altissime che fanno dondolare enormi irsuti fasci di tondini, presi al volo nella loro assassina oscillazione dalla mano guantata di un microscopico operaio, che con la grazia di quel gesto preciso evita con apparente noncuranza la morte di ferro che gli sfiora la testa senza casco.
In ognuna di queste albe d’inverno guardo dall’alto dei finestrini quell’apparente caos di melma e nebbia e acciaio, quegli stivali immersi in terra viscida emulsionata col ghiaccio della notte, quel metallo nero di cui sembra di sentire il peso e il gelo, quei berretti calati fino agli occhi su facce a volte anziane, molto spesso scure, quei fiati che escono diritti nell’aria ferma, mescolati di vapore e fumo, quei guanti che irrigidiscono le mani e sembra le debbano ingoffare, e invece le vedi con la tenaglia girare esatte intorno ad un tondino il fil di ferro, legarlo all’altro, stringere e fermare il nodo, con un unico movimento armonico e concluso a cui è più che sufficiente una mano sola e che non fa nemmeno oscillare la sigaretta sul lato della bocca.
Guardo i mucchi di ghiaia brinata tra pozzanghere d’acqua scura e neve sbriciolata, vedo le creste alte di fango che congelano i tracciati curvi degli enormi camion che rimuginano cemento in tondo, vedo piovigginare sulla baracca e sul fuligginoso bruciacchiare di quattro assi ammonticchiate. E la luce che sprizza di scintille azzurre dove una giacca arancio, curva, fa un buco nella nebbia con una fiamma ossidrica.
Mi pare allora che un treno e un ufficio caldo e asciutto siano quasi un premio a volte, anche se non so per cosa.
 
venerdì, 11 novembre 2005

(Personaggi in cerca di storie)

La signora S.

Come mi vergognavo. In strada le conoscenti, le vicine, ammutolivano con le labbra strette quando passavo, solo un cenno del capo per saluto e poi dietro la schiena sentivo risalire il mormorìo "...una disgrazia così..."
Ma erano davvero pochi gli occhi in cui se appena osavo alzare i miei vedevo un velo di commiserazione: negli altri, girati in fretta altrove, la fredda fiamma di chi disapprova, lo schiaffo della riprovazione.
E dire che non era colpa nostra - anche se mi vergognavo come se lo fosse - o almeno non credo, non lo so. Come si fa a sapere.
Ma è questo che gli ha fatto tanto male a mio marito, il fatto che la gente ci pensasse male, che parlasse male di noi, di lui, della famiglia.
Lui, che per lui non c'era cosa più importante che la rispettabilità, il decoro, l'essere perbene, l'essere normali. Aveva fatto tutto quel che poteva, per essere normale come tutti, il più possibile. Avevamo fatto tanti sforzi, sempre, come si deve fare.
Poi gli capita di essere qualcuno di cui la gente parla, qualcuno che ha qualcosa da nascondere. Non qualcosa da poco, ma suo figlio. Proprio l'unico figlio, quello maschio. Ho sempre avuto questa sensazione che gli sarebbe spiaciuto meno se a capitarle una cosa così fosse stata la figlia, la ragazza. Ma poi magari è solo un'idea mia.
Però credo sia proprio questo che l'ha fatto cambiare, che l'ha incattivito: è sempre stato un uomo duro sì, e severo, ma mai con questa asprezza così amara, mai così come dopo che è successa quella cosa.
All'improvviso proprio a noi è capitata, o forse c'era anche stato un qualche segnale, qualcosa di cui ci si sarebbe dovuti accorgere, un sintomo, un avviso: non so, io non mi accorgo mai in tempo delle cose. So che per quel che mi ricordo è stato proprio da un giorno all'altro che è cambiato.
Eppure da piccino era normale mio figlio, era anche un bel bambino, me lo ricordo bene quando mi abbracciava con quei begli occhioni. Non so cosa gli è successo, ma io non lo so mai cosa succede.
Non so come è successo che quella bambina morbida e graziosa che ero io sia diventata una ragazza così bruttina e insulsa, non so come quella vita che mi vedevo davanti piena di cose belle e di sorrisi poi ne abbia avuti così pochi di sorrisi che me li ricordo appena. Non so neanche com'è stato che nonostante fossi così sgraziata e goffa un fidanzato anch'io l'abbia trovato, e poi un marito.
E non sapevo niente di quello che è successo quella prima notte di nozze, e non l'ho saputo bene neanche dopo. Mi sono abituata: e poi quello che ti deve succedere succede e tu lo accetti, cos'altro devi fare? Non so ancora adesso come li ho messi al mondo questi due figli, so che anche loro sono venuti e me li sono presi, e ho cercato come sempre di fare del mio meglio.
Ho sempre cercato di fare bene ed esser schiva e brava, per quello mi han fatto tanto vergognare le maldicenze della gente, la loro così visibile condanna appena impomatata da una bava unta di pietà, e muta.
L'unica che me ne ha parlato è stata quella donna, quell'immigrata del sud che lava le scale del palazzo: e io mi vergognavo tanto anche di lei, pensa, di una donna di fatica. Ma lei mi ha detto qualcosa che forse era gentile - mi è parso - quella volta nell'androne: "Eh, signò, non state a farvi il sangue amaro, eh, via, che ogni scarrafone è bello a mamma sua!".
(E ancora adesso mi domando come facesse a saperlo, a saper qualcosa lei, una donna a ore, dopo che noi si era a fatto di tutto per passar la disgrazia sotto il più rigido silenzio. Ma lo sapevan tutti, anche senza conoscere niente di preciso: sembra sempre che tutti siano riservati e chiusi, ognuno come si deve dentro i fatti suoi e invece, vedi).
Che non era bello però io lo sapevo bene: ma più che l'aspetto fisico che - è vero, forse aveva ragione la Nunzia - una mamma a quello ci passa sopra senza tanti sforzi, era il suo essere, tutto quanto come era diventato, che mi inorridiva. 
Il fatto che non riuscisse più a parlare, quel senso disgustoso di sporcizia, quegli occhi lustri così difficili da guardare, che non si capiva mai se furenti o disperati.
E quel suo modo di muoversi, quello soprattutto: quegli scatti, quella specie di tremore, quei sussulti. Avere ripugnanza per il proprio figlio è una cosa che non si può perdonare, lo so, so che per questo non avrò mai pace, ma non potevo evitarlo, non potevo.
Qualche volta ho provato - all'inizio, quando ancora facevo finta di pensare che poi sarebbe andato a posto, che poteva anche guarire - ho provato ad aprire la porta della camera dove lo dovevamo tener chiuso (dio mio, pensare se qualcuno lo avesse visto, conciato com'era, dio mio.... già così, senza saper niente di preciso la gente ci voltava le spalle, già così).
Aprivo appena uno spiraglio e pensavo che magari se fossi andata lì a parlargli piano, se l'avessi un pochino accarezzato, come da bambino, se l'avessi magari preso in braccio e gli avessi detto che la sua mamma gli voleva bene forse sarebbe servito, forse almeno un pochino sarebbe andato meglio.
Ma poi lui mi vedeva, bastava che aprissi una fessura e iniziava ad agitarsi, a voler venire verso me, e sembrava mi volesse dir qualcosa ma non ci riusciva, così nello spasimo d'ansia si muoveva sempre più frenetico: e quel suo sguardo oscuro e ignoto, quel vibrare e fremere e contorcersi di sforzo, io non riuscivo a reggerli, non ce la facevo. E chiudevo di colpo la porta e scappavo via, con un singulto acido alla gola.
Non so cosa si doveva fare, non ne ho idea, ho fatto quel che diceva mio marito, di tenerlo chiuso e di non dargli retta, e che soprattutto non si sapesse in giro. Non so mai cosa decidere o pensare io, mi trovo più tranquilla se qualcuno me lo dice: ho sempre fatto così ed è sempre andato tutto bene, prima.
Però forse qualcosa si poteva fare. Magari quella mela si poteva togliere, forse col tempo poteva migliorare. Ma non lo so, io non so mai come succedono le cose. Non so neanche se ti ho voluto mai davvero bene, Gregor, bimbo mio.
 
mercoledì, 19 ottobre 2005

Ma dove andiamo, marinai

Di solito mi sveglio una mezz'ora, tre quarti d'ora più tardi. Ma in periodi come questo, di lavoro furibondo, metto su la caffettiera e accendo la luce e la radio tra le cinque e mezza e le sei del mattino.
In questo tempo dell'anno è tutto buio a quell'ora e c'è un momento, più o meno quando inizia a salire il caffè, in cui viene trasmesso il bollettino del mare.
Nella bella stagione dalla tazza si beve seduti sulla soglia del terrazzo e si guarda l'aurora, ma ora che l'alba è ancora lontana il caffè lo bevo appoggiata al davanzale dell'altra finestra, dove c'è il calorifero, e ascolto la radio. Devono aver spostato l'orario di quel bollettino perché mi ricordo benissimo che lo sentivo da bambina, quando certo non mi alzavo a ore così antelucane, e allora si chiamava Avvisi ai Naviganti.
Era un incanto tanto strano la lentezza scandita con cui davano le notizie che avevo chiesto il perché parlassero in quella maniera, ricavandone la meravigliosa spiegazione che dovevano dare il tempo a chi ascoltava di poter prendere nota.  Facevo colazione ascoltando affascinata i venti deboli in rinforzo sud est sul quadrante settentrionale - mare mosso in aumento - agitato sul canale di sicilia - e pensavo ai naviganti.
I naviganti prendevano nota, in piccole stanze ondeggianti rivestite di ferro e di legno, circondati dal buio del mare. I naviganti avevano barbe corte e incolte e berrettini di lana calati sulle sopracciglia, e prendevano nota su un blocco, concentrati ma anche contenti di quella voce di donna così attenta e seria, e lenta a dettare.
Anche adesso penso ai naviganti, quando ascolto il bollettino che gli anticipa quali onde e quanto grandi, da quale parte tirerà il vento e se sarà una giornata di quelle cattive. È sempre uno lì solo, per me, quello che ascolta: gli altri dormono o hanno altri doveri e lui è da solo in una cabina a prua un po' in alto, una lucina gialla sul mare.
Io non so niente di navigazione, so solo il ricordo di una volta che mangiando un gelato sulla banchina ho visto entrare nel porto canale una nave con insegne in cirillico, una scatola lenta di ruggine e vernice mal data e rappresa: sparpagliati sul ponte pochi, pochissimi uomini per una nave grande così, in piedi in maglietta con le facce senza espressione e un filo di biancheria stesa che si asciugava appassendo.

La mattina quando è ancora notte bevo il caffè con i venti moderati in aumento, penso ai naviganti e ascolto i camion nel buio, che passano senza che io li veda con un rombo soffiato sulla statale, penso che anche loro sono dei naviganti e anche noi, in quell'ora pesante prima del giorno, con quello stringersi di solitaria stanchezza nelle tempie e sulla cima degli occhi, con quel sapore di petrolio e metallo, e l'odore di sigaretta, di nafta e di sale.
 
venerdì, 07 ottobre 2005

Opachezza, ma anche lustrità.

Ci sono giorni che ti alzi e sei opaco e greve, tutto pesante e informe, grigiastro e un bel po' fangoso a masticarti. Hai gli occhi vuoti e una punta di lingua appena sporta, in inane intontita mancanza di riflessi. E ti lasci trasportare, come un tronco inerte, sulla schiumosa corrente bassa che si arriccia attorno a sassi inutili, disposti senza senso.
E ci sono giorni che germogli e sorgi lustro, leggero e tutto illuminato, palpiti liscio, pulito e trasparente. Hai occhi enormi tutti sfaccettati, succhi ogni odore e ogni sapore sulla pelle. E muovendoti senti di creare un vortice, soffio d'aria sottile piena di pulviscolo, di cui sei il centro mobile e spazioso.
Cerchi di capire se dipenda dal clima o dal lavoro, se influisca quello che hai mangiato o quanti sorrisi hai procreato il giorno prima.
Ma non c'entra niente: è che siamo bruchi e farfalle, prima e dopo, e nel mezzo notti immote e avvoltolate di crisalide.
Condividiamo, ripetuto cento e cento volte, il ciclo di qualunque cavolaia.
 

Solare, intrigante, un po' pazzerella

 
giovedì, 28 luglio 2005

E poi già fa caldo, già c’è quest’aria afosa spessa e umidiccia, già si è stanchi e infastiditi dalle troppe cose da fare prima delle ferie, già il caffè qui è tanto cattivo da essere più una punizione che un piacere, già che. Che ci manca solo questa invasione di gnè-gnè, di gattine monelle du du dadada, di allumeuses farlocche come abatjour spolverate di brillantini, di femminucce inquiete che però fan finta di no.
Come esci dalla cerchia dei noti e fidati ti ingolfi nella fanghiglia brulicante e appiccicosa di mezze civetterie, mezze allusioni, mezze promesse, mezze corsette a farsi inseguire per poi schermirsi mannò ma dai ridacchiando vezzose dietro il ventaglio. 
Mi legano i denti tanto da aver voglia di correre a sciacquare la bocca le accerchianti legioni di sbarazzine ansimanti e di frignette che però guarda come son coraggiose, con quei lacrimoni, che tenerezza ti mangerei di baci, micetta.
Sarà che oggi sono di pessimo umore di mio, ma tutte queste paperette gnè gnè io le impalerei.
Così, solo per ripulire un po’ l’aria da questo odore ammorbante di sospirini al white musk.

Afa


lunedì, 18 luglio 2005

Come mi piace l'impudicizia dell'afa. Non quella dell'abbigliamento che porta a svestirsi anche più del dovuto: di quella parlano già le Linesotis nei loro pezzi di ferma condanna alle signore smutandate e discinte, ormai tanto teneramente usuali da segnare tradizionalmente l'avvio dell'estate assieme alla foto delle turiste coi polpacci a mollo nella fontana (nessuno ne ha mai viste dal vero: sono le cugine bionde del fotografo che ogni anno le sottopone a questa umiliante rappresentazione), assieme alle raccomandazioni per difendersi dal caldo che uccide - che ormai ci siamo sentiti dire così tante volte che bisogna bere, stare all'ombra, mangiar frutta e verdura e vestirsi di lino e cotone che ci vien voglia di fare il contrario e suicidarci per protesta lasciandoci morire disidratati come meduse, vestiti di nylon nero nella piazza centrale all'una del pomeriggio.
E magari così risparmieremmo l'annuale samaritana rottura di palle da parte dei vigili del fuoco alla ottuagenaria vicina che era tranquillissima nel suo tinello, ombroso come una grotta in ogni stagione e altrettanto delicatamente odoroso di muffa, a bere karkadè e guardar la tv e non stava affatto morendo di ipertermia solitudine e disidratazione.
 
No, che io amo è lo sbracare da ogni pudore che fa sì che finestre tutto l'anno velate da tende, tapparelle e veneziane restino spalancate a ogni ora del giorno. Perché non tutti hanno l'aria condizionata, checché se ne dica, soprattutto qui nella remota provincia: ci si affida a giochi sapienti di riscontri d'aria, alla assurda speranza che due finestre aperte sulla stessa parete possano fare corrente.
Così se mi affaccio vedo soggiorni e cucine, camerette, corridoi e tinelli. Bagni, persino. E lungo la strada per casa le finestre dei pianterreni, per tutto l'anno inviolabilmente serrate, si arrendono aperte del tutto a mostrare i loro segreti a te che passi per strada, così a a portata di mano che potresti metter dentro la testa e annusare e mescolare il soffritto che vedi sul gas o allungare la mano a sfogliare la Gazzetta appoggiata sul tavolino, vicino alla bomboniera quasi swarovski che fa da posacenere, pieno.
 
Non sono una guardona, non proprio: di quegli interni non mi interessa la gente, o almeno non tanto. Quel signore sbracato sul divano, le bianche gambe pelose illuminate dalla luce azzurrina di un film, quella signora che rassetta le stoviglie tremolando una sovrabbondanza di carne in canottiera e pantaloncini da tuta, quel ragazzino che aveva già fatto mezza doccia quando ha realizzato di essere davanti al mondo e ha chiuso le tende e abbassato la radio, loro mi piacciono, sì, ma anche se non ci fossero non avrebbe importanza.
A me piace guardare le case, le mensole, i frigo, le stoffe sopra i divani, i quadri alle pareti e le luci. 
Le luci agghiaccianti dei cucinotti al neon e quelle troppo gialle dei tinelli irranciditi, le luci mielate
dei soggiorni di melammina rustica e le onnipresenti sfarfallanti di blu di uno schermo riflesso in ogni finestra.
E i rumori, che finalmente si sentono bene: l'acciottolare dei piatti e gli spari del telefilm, un bambino lagnoso e i bassi tesi di una discussione infinita, il martellare rock di una mansarda, una bachata mischiata al tg, un cane, i piccioni e una ondulante cantilena egiziana.
 

venerdì, 10 giugno 2005

Cinque mesi

Avevo pensato che sarei stata felice: che era quello che mi mancava, per essere felice. Che sarei stata felice sempre, in ogni momento. Che ci sarebbe stata quella luce dolce e calda, quella luce morbida, che si vede nelle pubblicità. Mi immaginavo la culla, i vestitini. Pensavo me, i miei movimenti lievi, pensavo ai suoni teneri di balbettii e tintinnare di carillon, pensavo agli odori del borotalco e del latte, che mi ricordavo ancora, da quanto tempo, da quando ero piccola io, forse.
Non lo sapevo che ci sarebbero stati quei versi stridenti, quel gridare senza ragione perchè piangi madonna santa perché? Non avevo mai pensato al sonno così tante volte interrotto, alla stanchezza nelle braccia e nella testa, all'odore, al non saper cosa fare, perché piangi ancora, perchè?
Non mi ha detto nessuno che avrei avuto paura, nessuno mi ha detto che avrei avuto voglia di non averlo, di non averlo avuto, che avrei voluto fosse ancora solo un desiderio e non una cosa, una cosa che non capivo, che non mi lasciava pace, che mi aveva svuotato da me.
Nessuno mi ha detto che avrei pensato che non ero sicura di amarlo, che avrei voluto che me lo togliessero via, via di dosso e che invece non si poteva, perché adesso che c'era ci sarebbe stato per sempre.
Mi han detto tutti che sarei stata felice, che finalmente sarei stata proprio come volevo, proprio come si deve essere, che era la gioia più grande, che non c'è niente come quello, niente.
Allora ero io che non ero capace, se per tutti era sempre così, se per tutti era bello e per me era un'ansia continua, se per me era svegliarmi con un tuffo nel cuore perché forse non era a posto davvero, era pensare mammamia ma come faccio, come faccio a farti diventar grande, io non lo so, io non sono capace.
Era la stessa cosa di quando mi ero sposata, tutti dicevano è il giorno più bello della tua vita e io, davvero, ho fatto di tutto per farlo essere proprio perfetto, ho fatto tutto, tutto quel che sapevo, ma non so, quel giorno lì aveva qualcosa che non era, non era come avevo pensato. Quando ci pensi da bambina, quando lo vedi nei film, è diverso. Anche allora avevo pensato di essere io, che non ci riuscivo, o che forse avevo sbagliato, forse ci voleva un uomo più bello, forse ci voleva un uomo come nei film, ma io forse non ero abbastanza bella, non abbastanza per averlo. Però nelle foto ero bella, magari poi sarebbe successo qualcosa, qualcosa che mi avrebbe fatto sentire a posto davvero, sentire che ero riuscita, che non mi mancava più niente, che non avevo più vuoti.
Per quello avevo pensato che era un bambino, quello che mi mancava. Me lo dicevano, adesso ti manca un bambino. Ed era vero, a me mancava, fin da quando ero io una bambina, lo volevo tantissimo, qualcosa di bello, di mio.
Qualcosa che avevo fatto io, che mi apparteneva, che mi avrebbe amato tantissimo e mi avrebbe reso felice.
Non importa se non sono davvero tanto felice adesso, pensavo, è solo che è quello che manca, vedrai, vedrai quando arriva vedrai.
Tanto tempo ho passato aspettando e cercando e poi un giorno ho pensato che adesso era tutto finito, che nessun altro mai, nessun uomo bellissimo e forte mi avrebbe portato via, nessuna altra vita avrei mai avuto, solo questa di lavarti e vestirti e essere una signora sposata, una che aveva un bambino, non sarei mai più stata una ragazza, mai più.
Ti ho voluto tanto, ma tanto. Ti ho voluto per darmi la vita, per darmi una mia vita vera e quando ti ho avuto mi sono accorta che me l'avevi tolta tutta. Che non c'era altro che tu, e non ci sarebbe mai stato altro.
E tu non mi volevi bene. Lo so. Se no non avresti pianto così, così tanto.
Non mi avresti fatto sentire scema e incapace.
Non mi avresti sfidato a chi era più forte, a chi poteva fare impazzire quell'altro.
Non mi avresti tenuta qui chiusa in casa, scarmigliata e mezzo svestita, a far tutte queste cose e odiarti e aver sonno e pulire e mettermi bene e uscire perché tutti dicessero ma che bel bambino, ma che tesoro, signora.
Non me l'avevano detto, non avevo provato. Mia nonna ha tirato su cinque fratelli, lo diceva sempre, li ha avuti in braccio da quando eran poppanti e nessuno le ha mai chiesto se era capace. Io un neonato l'avevo visto solo in tv, non ne ho mai tenuto uno in braccio, nemmeno un gattino. Non mi hanno insegnato, non mi hanno detto che potevo, e come si faceva, e che non c'è da aver paura e che tutte possono farlo, tutte son fatte per esser capaci.
Perché no, non ero capace. Non ero capace, neanche questa volta, di esser felice. E non ce ne sarebbero mai state altre: lo sai avevo tutto, tutto quello che avevo sempre voluto, un marito una casa un bambino. E non ero felice lo stesso. Non sarei stata felice mai più, ecco, se era così, allora lo sapevo.
Se non puoi essere felice mai più, se tutte le cose che hai sempre pensato non ti fanno felice, se neanche adesso, neanche adesso che ho te io so essere felice, se neanche adesso c'è quella luce, se non trovo neanche adesso quella me che finalmente è arrivata, che è contenta, allora, tanto vale morire.
Tanto vale che muoio, che muori, perché tu sei me. Sei la parte di me che non ha mai saputo come si fa, mai capito come esser felice.
Mettetemi in prigione, io ci resto. Era bello, se fosse stato, ma tanto, è finita così. Fate quel che volete, tanto noi siamo morti.
Tanto, io sono morta. Sono morta di parto, sono morta.