lunedì 19 marzo 2012

Afa


lunedì, 18 luglio 2005

Come mi piace l'impudicizia dell'afa. Non quella dell'abbigliamento che porta a svestirsi anche più del dovuto: di quella parlano già le Linesotis nei loro pezzi di ferma condanna alle signore smutandate e discinte, ormai tanto teneramente usuali da segnare tradizionalmente l'avvio dell'estate assieme alla foto delle turiste coi polpacci a mollo nella fontana (nessuno ne ha mai viste dal vero: sono le cugine bionde del fotografo che ogni anno le sottopone a questa umiliante rappresentazione), assieme alle raccomandazioni per difendersi dal caldo che uccide - che ormai ci siamo sentiti dire così tante volte che bisogna bere, stare all'ombra, mangiar frutta e verdura e vestirsi di lino e cotone che ci vien voglia di fare il contrario e suicidarci per protesta lasciandoci morire disidratati come meduse, vestiti di nylon nero nella piazza centrale all'una del pomeriggio.
E magari così risparmieremmo l'annuale samaritana rottura di palle da parte dei vigili del fuoco alla ottuagenaria vicina che era tranquillissima nel suo tinello, ombroso come una grotta in ogni stagione e altrettanto delicatamente odoroso di muffa, a bere karkadè e guardar la tv e non stava affatto morendo di ipertermia solitudine e disidratazione.
 
No, che io amo è lo sbracare da ogni pudore che fa sì che finestre tutto l'anno velate da tende, tapparelle e veneziane restino spalancate a ogni ora del giorno. Perché non tutti hanno l'aria condizionata, checché se ne dica, soprattutto qui nella remota provincia: ci si affida a giochi sapienti di riscontri d'aria, alla assurda speranza che due finestre aperte sulla stessa parete possano fare corrente.
Così se mi affaccio vedo soggiorni e cucine, camerette, corridoi e tinelli. Bagni, persino. E lungo la strada per casa le finestre dei pianterreni, per tutto l'anno inviolabilmente serrate, si arrendono aperte del tutto a mostrare i loro segreti a te che passi per strada, così a a portata di mano che potresti metter dentro la testa e annusare e mescolare il soffritto che vedi sul gas o allungare la mano a sfogliare la Gazzetta appoggiata sul tavolino, vicino alla bomboniera quasi swarovski che fa da posacenere, pieno.
 
Non sono una guardona, non proprio: di quegli interni non mi interessa la gente, o almeno non tanto. Quel signore sbracato sul divano, le bianche gambe pelose illuminate dalla luce azzurrina di un film, quella signora che rassetta le stoviglie tremolando una sovrabbondanza di carne in canottiera e pantaloncini da tuta, quel ragazzino che aveva già fatto mezza doccia quando ha realizzato di essere davanti al mondo e ha chiuso le tende e abbassato la radio, loro mi piacciono, sì, ma anche se non ci fossero non avrebbe importanza.
A me piace guardare le case, le mensole, i frigo, le stoffe sopra i divani, i quadri alle pareti e le luci. 
Le luci agghiaccianti dei cucinotti al neon e quelle troppo gialle dei tinelli irranciditi, le luci mielate
dei soggiorni di melammina rustica e le onnipresenti sfarfallanti di blu di uno schermo riflesso in ogni finestra.
E i rumori, che finalmente si sentono bene: l'acciottolare dei piatti e gli spari del telefilm, un bambino lagnoso e i bassi tesi di una discussione infinita, il martellare rock di una mansarda, una bachata mischiata al tg, un cane, i piccioni e una ondulante cantilena egiziana.
 

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