lunedì 19 marzo 2012


venerdì, 03 marzo 2006

Primavera

Silvina tornò a casa verso le quattro e mezza e chiuse la porta, con tre giri e la catenella.
Attraversò senza accendere la luce il corridoio e andò a riporre per bene nell'armadio il cappotto nero, quello bello. Poi mise le pantofole e andò in cucina e lì si rese conto che non aveva più niente da fare.
La casa era a posto, sapeva di brodo, di caffè e di Pronto, pulita come un confetto: per far fronte come si deve a tutto l'andirivieni di persone per giorni si era alzata alle cinque del mattino. Perfino i centrini aveva lavato e inamidato, rigidi come tortine di zucchero sotto le biscottiere, le foto e i fiori secchi. 
In piedi tra il tavolo e l'acquaio si accorse che per la prima volta da quando arrivavano i ricordi non c'era nessuno per cui cucinare.
Ogni giorno l'orologio era stato diviso sempre in tante piccole giornate, ognuna da portare a compimento, la colazione, il pranzo, la cena. E quando c'erano stati i bambini una in più, anche la merenda.
Con le molte altre faccende che c'erano da fare in mezzo, certo, ma ognuno di quei tragitti giornalieri aveva la sua meta, il suo orario di cose da portare in tavola. Mondare il prezzemolo, sgranare i piselli: i primi servizi resi, nella sua memoria, al bisogno di arrivare caldi e giusti alla scadenza. Non dopo, bimba, adesso: che i piselli alla mamma servono subito, che è già ora di metter su la minestra.
La giornata era facile, divisa in pezzi così, come un tocco di burro. Tante cose da fare prima di pranzo e cena, che le ore vanno e non si deve sbagliare ad esser pronti per quelle impazienze brusche, per quella fame che si aspetta il piatto.
Aveva pur mangiato anche lei, e le era piaciuto. Ma non per quello era da fare: lei si era nutrita come nutriva il gatto, gli altri li aveva messi a tavola.
In tutta la vita aveva avuto da pensarci, cosa e come e quanto e per chi: i vecchi inappetenti e gli adolescenti ingordi, le golose zie tiranniche e i bebè per cui frullare, i bambini da far crescere e
gli anziani ipertesi, e un uomo che non lasciava sfuggire mai nessun errore, nessuna presa di sale mal dosata.
Così nel silenzio riflesso dal laminato e dal lavello, guardando l'asciugapiatti coi disegni di mulini appeso al suo gancino, alla ventosa, al muro, pensò che non aveva più nessuno per cui far da mangiare.
Quello che da quel giorno in poi sarebbe stato per lei e per tutti il suo povero marito non avrebbe più dovuto avere una tovaglia, un tovagliolo, un posapentola appoggiato in fretta per non togliere la vista del televisore.
Silvina stava in piedi pensando che mangiare per forza alle otto non vuol dire niente, forse.
Mandò via l’idea, sbalordita non tanto della sua stranezza quanto del fatto che fosse così proprio possibile di mangiare un pezzo di fontina davanti al frigorifero e poi magari andare a letto, di pomeriggio, a leggere del matrimonio di quell'attrice e poi dormire.
Si passò le mani sulla gonna e guardò dalla finestra che c'era ancora luce ed erano già le cinque, si stavano allungando eccome, le giornate. 
Se sapevo, se sapevo che aver morto il marito voleva dire fare quello che si vuole io gli volevo bene, era un brav'uomo, ma io lo avvelenavo tanti anni prima.
 
 

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