lunedì 19 marzo 2012

giovedì, 13 dicembre 2007


E però io me li ricordo, gli operai.
Che mi viaggiavano vicino mentre andavo a scuola e riempivano il treno tutto intero e si addormentavano, subito.
E me li ricordo quando gli scioperi esistevano e non si chiamava sciopero il ricatto, e non sembravano sinonimi diritti e privilegi, istanze e prepotenze.
Mi ricordo che quando arrivavano in corteo io pensavo che allora fosse tutto a posto.
Quando arrivavano gli operai, quando arrivavano i metalmeccanici, “Arriva la Breda, sono arrivate la Falck e la Pirelli” io mi sentivo al sicuro.
Perché avevo quattordici anni e in corteo ci andavo, e mai i miei genitori mi han detto di non farlo, ma solo di stare attenta. E “stai vicino agli operai”. Perché c’erano le molotov e i bavagli e le pistole. E anche alla polizia bisognava stare molto attenti.
Ma vicino agli operai non c’era rischio. Non era il posto per qualcuno che facesse troppe pirlate.
E mi rassicuravano le loro mani così grandi e le loro facce così serie, e il fatto che sembrassero tanto forti, anche le donne, anche i più mingherlini. Tanto sicuri, tanto tanti.
Per questo mi sentivo certa, pensa, anche di aver ragione.
Perché nelle mie nebulosissime idee politiche di bambinotta liceale restavo perplessa, spesso, dalla verbosità fumosa e infinita delle assemblee studentesche, restavo sconcertata dalla un po’ isterica smania di romper tutto di certi cuccioli del maggio e dell’autonomia. Quasi sempre non capivo chi avesse ragione, e perché. Ma se arrivavano gli operai allora ero sicura fossimo nel giusto.
Perché son gente seria, perché hanno le palle, perché son stanchi, perché non han mica tempo da perdere. E se dicon loro che questa cosa qui non la si può lasciar passare, allora non può che esser vero, non la si può lasciar passare.
Per questo mi chiedo quand’è che son scomparsi. Quand’è che la classe operaia invece di andare in paradiso si è limitata a diventare un fantasma, quando ha cessato non di esistere ma di essere percepita, quando si è dissolta forse sotto i neon di un centro commerciale, vaporizzata da una raffica di consigli per gli acquisti.
E quando è stato che chi comanda le aziende invece di esserci arrivato salendo dal reparto ci è stato catapultato, già incravattato, da un master in administrescion senza sapere affatto se a fabbricare le piastrelle, i microchip o i motorini che escono coi camion giù dal cortile siano macchine o uomini. O scoiattoli, o gnomi.
E quando e come son riusciti a metterli uno contro l’altro, il regolare e il clandestino, anche se si passano i mattoni sulla stessa impalcatura, anche se dal ponteggio cadono proprio nello stesso modo.
E come son riusciti con tanta facilità a convincere i ragazzini che sia più dignitoso e di valore fare il tronista che il tornitore (che continua a sembrarmi impossibile che quella delle due cose di cui ci si dovrebbe vergognare e quella di cui andare fieri si siano invertite così, senza quasi far rumore).
Mi chiedo quando è stato che hanno iniziato a fare i buoni, a essere così tanto buoni, e silenziosi, e rassegnati, e forse è stato quando li han presi in ostaggio con il mutuo da pagare, quando a tutti noi hanno spiegato, convincendoci fin troppo facilmente, che avere debiti fosse un privilegio e non un cappio.
Mi chiedo anche quando tutti quanti abbiamo iniziato a essere così accomodanti e dolci, così morbidi nell’acquiescenza, così soffici nell’ingoiare precariato e paghe in nero e violazioni di ogni norma, così sonnolenti da accettare sbadigliando di scambiare il “nessuno nel mondo dev’essere sfruttato” con un “va bene se siamo un po’ sfruttati tutti, basta che qualcun altro lo sia più di me”,
Deve essere stato più o meno quando abbiamo smesso di pensare che lo Stato siamo noi, che la forza lavoro siamo noi, che i cittadini siamo noi, e abbiamo iniziato a pensare che lo Stato sono “quelli là”, che il lavoro è una debolezza un po’ vergognosa, forse un’elemosina, che i cittadini sono quelli che abitano in città.
E adesso non so come finire questo discorso, non so.
Ma so bene perché l’ho iniziato.

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