lunedì 19 marzo 2012

venerdì, 11 novembre 2005

(Personaggi in cerca di storie)

La signora S.

Come mi vergognavo. In strada le conoscenti, le vicine, ammutolivano con le labbra strette quando passavo, solo un cenno del capo per saluto e poi dietro la schiena sentivo risalire il mormorìo "...una disgrazia così..."
Ma erano davvero pochi gli occhi in cui se appena osavo alzare i miei vedevo un velo di commiserazione: negli altri, girati in fretta altrove, la fredda fiamma di chi disapprova, lo schiaffo della riprovazione.
E dire che non era colpa nostra - anche se mi vergognavo come se lo fosse - o almeno non credo, non lo so. Come si fa a sapere.
Ma è questo che gli ha fatto tanto male a mio marito, il fatto che la gente ci pensasse male, che parlasse male di noi, di lui, della famiglia.
Lui, che per lui non c'era cosa più importante che la rispettabilità, il decoro, l'essere perbene, l'essere normali. Aveva fatto tutto quel che poteva, per essere normale come tutti, il più possibile. Avevamo fatto tanti sforzi, sempre, come si deve fare.
Poi gli capita di essere qualcuno di cui la gente parla, qualcuno che ha qualcosa da nascondere. Non qualcosa da poco, ma suo figlio. Proprio l'unico figlio, quello maschio. Ho sempre avuto questa sensazione che gli sarebbe spiaciuto meno se a capitarle una cosa così fosse stata la figlia, la ragazza. Ma poi magari è solo un'idea mia.
Però credo sia proprio questo che l'ha fatto cambiare, che l'ha incattivito: è sempre stato un uomo duro sì, e severo, ma mai con questa asprezza così amara, mai così come dopo che è successa quella cosa.
All'improvviso proprio a noi è capitata, o forse c'era anche stato un qualche segnale, qualcosa di cui ci si sarebbe dovuti accorgere, un sintomo, un avviso: non so, io non mi accorgo mai in tempo delle cose. So che per quel che mi ricordo è stato proprio da un giorno all'altro che è cambiato.
Eppure da piccino era normale mio figlio, era anche un bel bambino, me lo ricordo bene quando mi abbracciava con quei begli occhioni. Non so cosa gli è successo, ma io non lo so mai cosa succede.
Non so come è successo che quella bambina morbida e graziosa che ero io sia diventata una ragazza così bruttina e insulsa, non so come quella vita che mi vedevo davanti piena di cose belle e di sorrisi poi ne abbia avuti così pochi di sorrisi che me li ricordo appena. Non so neanche com'è stato che nonostante fossi così sgraziata e goffa un fidanzato anch'io l'abbia trovato, e poi un marito.
E non sapevo niente di quello che è successo quella prima notte di nozze, e non l'ho saputo bene neanche dopo. Mi sono abituata: e poi quello che ti deve succedere succede e tu lo accetti, cos'altro devi fare? Non so ancora adesso come li ho messi al mondo questi due figli, so che anche loro sono venuti e me li sono presi, e ho cercato come sempre di fare del mio meglio.
Ho sempre cercato di fare bene ed esser schiva e brava, per quello mi han fatto tanto vergognare le maldicenze della gente, la loro così visibile condanna appena impomatata da una bava unta di pietà, e muta.
L'unica che me ne ha parlato è stata quella donna, quell'immigrata del sud che lava le scale del palazzo: e io mi vergognavo tanto anche di lei, pensa, di una donna di fatica. Ma lei mi ha detto qualcosa che forse era gentile - mi è parso - quella volta nell'androne: "Eh, signò, non state a farvi il sangue amaro, eh, via, che ogni scarrafone è bello a mamma sua!".
(E ancora adesso mi domando come facesse a saperlo, a saper qualcosa lei, una donna a ore, dopo che noi si era a fatto di tutto per passar la disgrazia sotto il più rigido silenzio. Ma lo sapevan tutti, anche senza conoscere niente di preciso: sembra sempre che tutti siano riservati e chiusi, ognuno come si deve dentro i fatti suoi e invece, vedi).
Che non era bello però io lo sapevo bene: ma più che l'aspetto fisico che - è vero, forse aveva ragione la Nunzia - una mamma a quello ci passa sopra senza tanti sforzi, era il suo essere, tutto quanto come era diventato, che mi inorridiva. 
Il fatto che non riuscisse più a parlare, quel senso disgustoso di sporcizia, quegli occhi lustri così difficili da guardare, che non si capiva mai se furenti o disperati.
E quel suo modo di muoversi, quello soprattutto: quegli scatti, quella specie di tremore, quei sussulti. Avere ripugnanza per il proprio figlio è una cosa che non si può perdonare, lo so, so che per questo non avrò mai pace, ma non potevo evitarlo, non potevo.
Qualche volta ho provato - all'inizio, quando ancora facevo finta di pensare che poi sarebbe andato a posto, che poteva anche guarire - ho provato ad aprire la porta della camera dove lo dovevamo tener chiuso (dio mio, pensare se qualcuno lo avesse visto, conciato com'era, dio mio.... già così, senza saper niente di preciso la gente ci voltava le spalle, già così).
Aprivo appena uno spiraglio e pensavo che magari se fossi andata lì a parlargli piano, se l'avessi un pochino accarezzato, come da bambino, se l'avessi magari preso in braccio e gli avessi detto che la sua mamma gli voleva bene forse sarebbe servito, forse almeno un pochino sarebbe andato meglio.
Ma poi lui mi vedeva, bastava che aprissi una fessura e iniziava ad agitarsi, a voler venire verso me, e sembrava mi volesse dir qualcosa ma non ci riusciva, così nello spasimo d'ansia si muoveva sempre più frenetico: e quel suo sguardo oscuro e ignoto, quel vibrare e fremere e contorcersi di sforzo, io non riuscivo a reggerli, non ce la facevo. E chiudevo di colpo la porta e scappavo via, con un singulto acido alla gola.
Non so cosa si doveva fare, non ne ho idea, ho fatto quel che diceva mio marito, di tenerlo chiuso e di non dargli retta, e che soprattutto non si sapesse in giro. Non so mai cosa decidere o pensare io, mi trovo più tranquilla se qualcuno me lo dice: ho sempre fatto così ed è sempre andato tutto bene, prima.
Però forse qualcosa si poteva fare. Magari quella mela si poteva togliere, forse col tempo poteva migliorare. Ma non lo so, io non so mai come succedono le cose. Non so neanche se ti ho voluto mai davvero bene, Gregor, bimbo mio.
 

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