lunedì 19 marzo 2012

mercoledì, 19 ottobre 2005

Ma dove andiamo, marinai

Di solito mi sveglio una mezz'ora, tre quarti d'ora più tardi. Ma in periodi come questo, di lavoro furibondo, metto su la caffettiera e accendo la luce e la radio tra le cinque e mezza e le sei del mattino.
In questo tempo dell'anno è tutto buio a quell'ora e c'è un momento, più o meno quando inizia a salire il caffè, in cui viene trasmesso il bollettino del mare.
Nella bella stagione dalla tazza si beve seduti sulla soglia del terrazzo e si guarda l'aurora, ma ora che l'alba è ancora lontana il caffè lo bevo appoggiata al davanzale dell'altra finestra, dove c'è il calorifero, e ascolto la radio. Devono aver spostato l'orario di quel bollettino perché mi ricordo benissimo che lo sentivo da bambina, quando certo non mi alzavo a ore così antelucane, e allora si chiamava Avvisi ai Naviganti.
Era un incanto tanto strano la lentezza scandita con cui davano le notizie che avevo chiesto il perché parlassero in quella maniera, ricavandone la meravigliosa spiegazione che dovevano dare il tempo a chi ascoltava di poter prendere nota.  Facevo colazione ascoltando affascinata i venti deboli in rinforzo sud est sul quadrante settentrionale - mare mosso in aumento - agitato sul canale di sicilia - e pensavo ai naviganti.
I naviganti prendevano nota, in piccole stanze ondeggianti rivestite di ferro e di legno, circondati dal buio del mare. I naviganti avevano barbe corte e incolte e berrettini di lana calati sulle sopracciglia, e prendevano nota su un blocco, concentrati ma anche contenti di quella voce di donna così attenta e seria, e lenta a dettare.
Anche adesso penso ai naviganti, quando ascolto il bollettino che gli anticipa quali onde e quanto grandi, da quale parte tirerà il vento e se sarà una giornata di quelle cattive. È sempre uno lì solo, per me, quello che ascolta: gli altri dormono o hanno altri doveri e lui è da solo in una cabina a prua un po' in alto, una lucina gialla sul mare.
Io non so niente di navigazione, so solo il ricordo di una volta che mangiando un gelato sulla banchina ho visto entrare nel porto canale una nave con insegne in cirillico, una scatola lenta di ruggine e vernice mal data e rappresa: sparpagliati sul ponte pochi, pochissimi uomini per una nave grande così, in piedi in maglietta con le facce senza espressione e un filo di biancheria stesa che si asciugava appassendo.

La mattina quando è ancora notte bevo il caffè con i venti moderati in aumento, penso ai naviganti e ascolto i camion nel buio, che passano senza che io li veda con un rombo soffiato sulla statale, penso che anche loro sono dei naviganti e anche noi, in quell'ora pesante prima del giorno, con quello stringersi di solitaria stanchezza nelle tempie e sulla cima degli occhi, con quel sapore di petrolio e metallo, e l'odore di sigaretta, di nafta e di sale.
 

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